In un interessante pezzo sul Corriere del 22 gennaio gli economisti Alesina e Giavazzi stroncano giustamente l’articolo intitolato “Perché Monti non è l’uomo giusto per dirigere l’Italia”scritto da Walter Munchau per il Financial Times. Riporto un estratto di quanto scritto dai due economisti:
“Si sta diffondendo una sciocchezza, cioè un’opinione che non ha riscontri nell’evidenza empirica. Il rigore dei conti pubblici sarebbe la ragione per cui la recessione si prolunga e la disoccupazione non scende: Lo ripete da alcuni mesi Stefano Fassina, responsabile economico del PD……; gli fa eco Silvio Berlusconi…..; ne fa cenno persino il Fondo monetario internazionale….; lo scrive Walter Munchau sul Financial Times.
Senza austerità, in Italia come in altri Paese europei, non vi sarebbe stata più crescita ma spread alle stelle, una probabile ristrutturazione del debito, scricchiolii nei bilanci delle banche; insomma il rischio di un altro 2008…... Se il governo Monti avesse perseguito l’austerità…tagliando la spesa, la recessione sarebbe stata molto meno grave. Ma tra questo e dire che l’Italia non avrebbe dovuto fare nulla, magri spendere un po’ di più quando lo spread sfiorava i 600 punti e il debito era diventato insostenibile, è da irresponsabili”. (grassetto mio)
Sottoscrivo queste parole al 100%:
Se si comprendono i motivi elettorali che inducono esponenti politici a sostenere la tesi predetta, ci si può domandare perché lo facciano Il Fondo Monetario Internazionale e il Financial Times. Sul primo punto ha risposto lo stesso Alesina alcuni giorni orsono nel corso della trasmissione radiofonica RAI “Radio anch’io”, in cui si è confrontato con un economista del Fondo Monetario , evidenziando le contraddizioni di questo organismo che, nelle sue ricerche, conferma la linea dell’austerità, ma poi, nelle dichiarazioni ufficiali , per ragioni politiche, la contraddice ( probabilmente per non urtare troppo la grande finanza e gli stati che ne sono fortemente condizionati, aggiungo io).
Sull’atteggiamento del Financial Times credo giochi molto la posizione ambigua della Gran Bretagna nei confronti dell’Europa , come risulta dall’orientamento recentemente espresso dal Premier David Cameron che, da un lato, ha confermato la vocazione europeista ma, dall’altro, ha minacciato di bloccare il trattato europeo, avvalendosi del diritto di veto, se l’Unione non verrà incontro alle esigenze del Regno Unito, che sono parzialmente contrarie a quelle degli altri paesi, i quali mirano ad una maggiore integrazione economica e, in prospettiva di lungo termine, politica. Cameron ha escluso di voler uscire dall’Europa, dicendo testualmente: “ se fossimo fuori dall’Unione noi potremmo continuare i nostri scambi con i paesi membri, ma non avremmo più voce in capitolo sulle regole di questo mercato”.
Ed è noto che quello che non piace ai britannici sono soprattutto i controlli sulla finanza, che ha a Londra il suo epicentro ed è il settore economico più importante del Regno Unito. Qualora in Italia fosse Premier Monti, forte del suo passato ruolo di commissario europeo e della sua credibilità internazionale, tali controlli potrebbero essere rinforzati dall’Unione, insieme ad altre misure non gradite alla grande finanza. Su questo versante, in questi giorni è stata approvata dall’Unione Europea la “cooperazione rafforzata” che consente a 11 Paesi di introdurre la tassa sulle transazioni finanziarie (c.d.: Tobin Tax ) senza attendere l’adesione degli altri. Anche se questa misura è da alcuni contestata perché ritenuta di dubbia efficacia, è comunque un indicatore della volontà europea di governare la tematica.
Come ha scritto Franco Venturini nell’editoriale del 24 gennaio sul Corriere “il vero e decisivo oggetto del contendere” è “ che l’Eurozona, guidata dalla Germania, vuole più integrazione, mentre la Gran Bretagna ne vuole di meno” come dimostra la richiesta del ritorno di poteri da Bruxelles a Londra fatta da Cameron e la sua intenzione di sottoporre tale richiesta a ratifica popolare entro il 2017.
Lasciando da parte l’impropria critica a Monti di un giornalista, le considerazioni che precedono pongono un tema di ampio respiro che dovrebbe essere affrontato: ma conviene all’Europa un partner “ a mezzo servizio”, come il Regno Unito, che cerca di sfruttare i vantaggi del mercato unico, ma non accetta le regole comuni e, quindi, mette spesso i bastoni fra le ruote del processo d’integrazione europea? Bisogna aspettare, al riguardo, la pronuncia britannica o è meglio che l’Europa giochi d’anticipo?
Sarebbe opportuno che le nostre forze politiche si esprimessero su questo tema così rilevante per il futuro dell’Europa e del nostro Paese.
Un dibattito nel blog potrebbe dare un primo contributo in questa direzione.