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sabato 27 settembre 2014

Una priorità nella riforma della giustizia




Il violento attacco del Sindaco di Napoli ai Magistrati che lo hanno condannato per abuso d’ufficio, oltre ad essere un esempio estremo e paradossale, ed anche un po’ ridicolo, di incapacità di assumersi le proprie responsabilità, essendone autore un ex magistrato, è anche  un forte indicatore dell’esigenza che, nella riforma della giustizia di cui si va discutendo, un posto di primo piano venga dato all’esigenza di troncare il  perverso intreccio politica-magistratura che ha fortemente inquinato la vita pubblica del nostro Paese.
Come è ben noto,  tanti magistrati, protagonisti di casi giudiziari clamorosi, hanno utilizzato in modo apparentemente strumentale la notorietà così acquisita, per aspirare a  e spesso realizzare una carriera politica di rilievo. De Magistris è uno di essi. Nessuno discute il diritto dei magistrati, come di tutti i cittadini, a proporsi come attori politici ma a loro compete l’obbligo, nel ruolo inquirente o giudicante, non solo di essere ma anche di apparire imparziali, cosa che non avviene se si crea anche solo il sospetto che le loro attività siano volte non a perseguire fini di giustizia, ma un tornaconto personale.
Il capostipite di questa tragico filone  è stato a suo tempo il Procuratore di Milano Saverio Borrelli,  capo del pool Mani Pulite,noto non solo per aver mandato un improvvido  avviso di garanzia all’allora Presidente del Consiglio mentre questi stava presiedendo un summit internazionale sul contrasto alla criminalità, ma anche per aver connotato politicamente la sua attività inquirente con la famosa frase “resistere, resistere, resistere” con cui prendeva posizione contro la politica. Le sue ambizioni,  malcelate e peraltro mai tradottesi in concreto, trasparivano chiaramente nell’intervista da lui concessa al Corriere della Sera nel 1994 in cui, fra l’altro, affermava “ Dovrebbe accadere un cataclisma per cui resta in piedi solo il Presidente della Repubblica che chiama a raccolta gli uomini di legge….A un appello del genere si potrebbe rispondere”.
Senza attendere la chiamata del Presidente, poco dopo quell’intervista Antonio di Pietro lasciò, in modo plateale,  la toga per gettarsi nell’arena politica, dalla quale è stato recentemente emarginato per vicende messe in evidenza da una trasmissione di Report che testimoniava una gestione molto singolare del Partito da lui presieduto e delle sue finanze.
Un altro caso di tentativo di monetizzare politicamente la fama raggiunta come inquirente è quello recente di Antonio Ingroia,  PM dell’inchiesta sulla trattativa Stato-Mafia, al quale si era legato anche De Magistris, con il lancio della lista Rivoluzione Civile che è andata incontro ad un flop, non raggiungendo il quorum per avere eletti in Parlamento. De Magistris si è poi candidato con successo a Sindaco di Napoli sventolando la bandiera della trasparenza e della legalità, che ora ha ammainato con l’incredibile attacco di cui sopra.
Si potrebbe continuare, ma credo che gli esempi fatti bastino a confermare la necessità che vengano previsti dalla legge dei precisi confini all’esercizio dell’elettorato passivo da parte di magistrati per porre fine ad una deriva assai grave che getta discredito sulla Giustizia e mette a repentaglio il buon funzionamento delle Istituzioni e del sistema economico , i cui esponenti possono diventare oggetto di inchieste che ne rovinano la carriera e, a volte la vita , e che in vari casi finiscono nel nulla. Non si possono dimenticare al riguardo i  ripetuti suicidi di politici e imprenditori coinvolti nelle inchieste, spesso assai brutali, condotte dal predetto pool Mani Pulite.
Una proposta al riguardo è quella che debba passare un tempo di alcuni anni fra l’abbandono della Magistrature e l’entrata in politica, principio che dovrebbe valere anche nell’eventuale percorso di ritorno per chi concludesse quest’ultima esperienza e intendesse riprendere la carriera giudiziaria. Mi auguro che il tema venga inserito nella discussione che il Parlamento si appresta a fare per migliorare la credibilità e l’efficienza dell’apparato giudiziario.

sabato 6 settembre 2014

Tagliare le spese non basta, ma si deve



E’ vero che di sola austerità si muore, ma ciò  che i politici ,e gli italiani che li hanno eletti, fingono spesso di non capire è che se non si fanno davvero le riforme, soprattutto quelle economiche, il nostro Paese sarà, prima o poi, sbranato dai mercati finanziari che attualmente sono molto tranquilli (basta vedere l’andamento dello spread) ma  che potrebbero darci un brusco risveglio se si convincessero che ancora una volta non stiamo facendo sul serio.
Il  governo  Renzi è partito con le migliori intenzioni e con grande dinamismo: ha avviato con rapidità numerose iniziative, dalle revisioni  istituzionali, al jobs act, alle riforme della giustizia e della Pubblica Amministrazione,  all’erogazione degli i 80 euro  ai lavoratori meno abbienti ma, a parte quest’ultimo provvedimento, sembra intenzionato ad agire  soprattutto sulle riforme “a costo zero” che, pur essendo utili, non risolvono la questione di fondo , cioè l’incapacità di ridurre il mostruoso debito pubblico che ci opprime.  Questa riduzione non si può fare solo con misure straordinarie, come la vendita delle aziende e degli immobili pubblici, ma richiede un sostanziale aumento dell’avanzo primario nel bilancio dello Stato e ciò non può avvenire se non affrontando i tre più grandi capitoli di spesa: la sanità,le pensioni, il costo dei dipendenti pubblici.
 Luca Ricolfi, in un recente editoriale su “La Stampa” ha evidenziato chiaramente  il bivio di fronte a cui si trova ogni leader politico quando arriva al governo.  Fare le riforme, passare  forse alla storia e perdere sicuramente le elezioni.  Oppure limitarsi agli annunci, ai rinvii, agli accomodamenti e sopravvivere per un lasso di tempo. Come ha osservato, sempre su “La Stampa” Massimo Gramellini, citando le precedenti considerazioni del collega, “ una cosa è pacifica: se le riforme tolgono consenso significa che in realtà i cittadini non le vogliono. Accusano i politici di essere conservatori, ma i primi a non desiderare un cambiamento sono  loro.   E anche loro nella pratica quotidiana tengono un comportamento opposto a quello ostentato nelle dichiarazioni pubbliche. A parole reclamano tagli alla macchina statale,agli enti locali, alle burocrazie, alle corporazioni, Nei fatti ogni volta che qualcuno si azzarda a realizzare in minima parte uno di questi applauditissimi propositi viene sommerso dalle proteste di chi si ritiene ingiustamente colpito”.
Un segnale positivo sulle intenzioni del Premier nel gestire questa difficile situazione  è la risposta a muso duro da lui data alle bellicose intenzioni di sciopero espresse dai sindacati di polizia  (“chi pensa di poter esercitare un ricatto, ha sbagliato indirizzo”). Renzi, a mio avviso, ha l’ambizione di lasciare un segno forte nell’evoluzione del Paese ma, essendo un politico assai attento al consenso, non sempre fa seguire alle intenzioni i fatti. Se non accetterà di rischiare una parte anche consistente della sua indubbia popolarità, difficilmente   potrà davvero incidere sulle contraddizioni italiane. Limitarsi ad attendere che  una sempre auspicata ma ancora lontana ripresa economica tolga le castagne dal fuoco del Governo risulterebbe esiziale, anche perché, se non ci saranno progressi sostanziali sul piano delle riforme, l’Europa non ci concederà mai la flessibilità di bilancio che il Governo ha ripetutamente richiesto.
Dei tre temi di fondo che ho citato come cruciali ( sanità, pensioni, dipendenti pubblici) andrebbe affrontato prioritariamente il primo perché sono ben noti gli sprechi nel settore sanitario e le corruttele che li alimentano ed elevati  possono essere i risparmi ottenibili senza sostanziali riduzioni nei servizi erogati ai cittadini. Una positiva azione in quest’ambito darebbe la forza di affrontare anche gli altri temi, ancor più spinosi ma ineludibili. Se nulla verrà fatto ci penserà, prima o poi, la Troika (Fondo Monetario Internazionale, Commissione Europea, Banca Centrale Europea), che ha agito con fermezza in altri Paesi, messi inizialmente peggio di noi ma ora avviati, con le riforme, ad un effettivo recupero di competitività. Il prezzo da pagare, però, sarà più duro.