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venerdì 13 maggio 2016

Islam ed Europa

Pubblico anzitutto l'interessante e recente articolo su La Repubblica  col quale il  giornalista  e scrittore Federico Rampini  ha esposto la sua personale esperienza di rapporto con la comunità islamica di Bruxelles, dove ha vissuto in giovinezza, e segnala l'involuzione avvenuta nel rapporto fra tale comunità e il contesto, e le relative cause.  E' un'esperienza specifica ma segnala problemi di carattere generale.
Dopo l'articolo riporto una dichiarazione del neo Sindaco mussulmano di Londra che segnala una diversa prospettiva e cito un' importante iniziativa delle comunità mussulmane in Italia che va nella stessa direzione. Una situazione in chiaroscuro su cui riflettere e lavorare.


Bruxelles, com’era 

 Si chiamava, scusate se è banale, Muhammad. Due volte a settimana, dopo la scuola lo aiutavo a fare i compiti. Lettura, dettato, algebra. Avevo sedici anni, lui undici. Ogni tanto m'invitavano a casa i suoi genitori per la merenda: tè alla menta, pasticcini al miele e pistacchi, tipo baciava. Il nostro mondo comune era il quartiere di Bruxelles tra Place Jourdan e Place Flagey. A ridosso di quella Rue de la Loi che molti hanno imparato a situare nelle mappe, tragicamente, per la strage nel metrò, stazione Maelbeek. Non ancora invasa come oggi da nuovi palazzi che ospitano istituzioni internazionali, quella zona centrale era abitata da immigrati. Marocchini come Muhammad, insieme a italiani e spagnoli, greci e tunisini. Al doposcuola dove lavoravo come volontario venivano anche i figli d'immigrati siciliani e calabresi. Io ero un privilegiato, figlio di un funzionario alla Commissione europea. Il privilegio è una realtà. Io penso che vada dichiarato, e usato al servizio di chi ha avuto meno fortuna. In quel caso potevo usare il mio livello d'istruzione per aiutare chi ne aveva meno di me. Tra "noi" e "loro", mediterranei-cattolici e mediterranei-islamici, colpivano le somiglianze. Nel weekend ci incontravamo a fare la spesa alla Gare du Midi, dove le bancarelle dei marocchini erano una profusione di colori e odori del nostro Sud. Ricordo il profumo del basilico marocchino, più mentolato di quello italiano. Salvia e rosmarino. Pomodori e peperoncini, olive, pinoli, acciughe sotto sale, tonno sfuso sott'olio, roba che oggi si trova nei supermercati e all'epoca era esotica nel Nord Europa. C'era un'altra cosa in comune, oltre alla nostalgia delle stagioni e dei sapori, dei colori e dei profumi, del nostro Mediterraneo. L'immigrato italiano o spagnolo e quello nordafricano erano uniti dalla stessa aspirazione. Integrarsi. Farsi accettare. Essere all'altezza di una società nordeuropea che si percepiva come un traguardo, una conquista. Era la ragione per cui il papà di Muhammad preferiva parlargli in uno stentato francese: bisognava ridurre le differenze con la popolazione locale.

Nell'arco di una o due generazioni si è consumata una rottura totale, drastica. Prima ancora che apparissero la jihad e le cellule del terrore. Il cambiamento è accaduto in una parte della comunità islamica proprio mentre il Belgio migliorava: sì, diventava meno razzista del Paese in cui ero cresciuto, molto più aperto verso le culture d'origine, le lingue e i costumi del mondo maghrebino. Al tempo stesso una parte crescente dell'immigrazione islamica cambiava atteggiamento verso di noi. Nella mia memoria l'inizio di quel capovolgimento coincide con la "rivoluzione" di Khomeini in Iran, l'instaurazione di una teocrazia sciita che denuncia l'Occidente come civiltà decadente, immorale, corrotta e peccaminosa. Altri meglio di me possono spiegare la storia di quegli eventi e di vicende parallele nel mondo islamico sunnita. Quello che a me rimane impresso, è un "prima" e un "dopo". Da un certo momento in poi tanti immigrati musulmani hanno deciso che non vogliono integrarsi. Lo strappo non ha equivalenti nel-le comunità d'immigrati italiani, o d'immigrati ispanici oggi negli Stati Uniti, dove vivo. Tanti islamici hanno cominciato a pensare che la loro è una civiltà superiore, che non hanno nulla da imparare, anzi devono evitare ogni contaminazione con noi. È diverso dall'attaccamento alle tradizioni, sempre vivo in tutte le diaspore di italiani o ebrei, cinesi o messicani, da sempre gli immigrati cercano di salvaguardare la propria identità. Ma un'altra cosa è sentirsi superiori. E al tempo stesso covare risentimenti, rancori, recriminazioni. Questo giacimento di vittimismo esiste in un vasto mondo islamico, anche moderato. È il terreno di coltura per i predicatori della Jihad. Gli immigrati italiani nella Bruxelles della mia infanzia e adolescenza, anni Sessanta e Settanta, erano dei combattenti. Cercavano dei sindacati per difendere i propri diritti. Si organizzavano nelle sezioni estere del Partito comunista o delle Acli (Associazioni cristiane). Volevano, in fondo, migliorare il Belgio. E ci sono anche riusciti. In quanto a Muhammad, la sua generazione si è integrata meglio di quanto si creda. Perché lo voleva.

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In una recente intervista il nuovo sindaco di Londra  Sadiq Khan ha dichiarato “ Puoi essere occidentale  e di  fede islamica. Le due cose sono compatibili. Io sono britannico di estrazione pachistana, sono europeo, sono un uomo asiatico,  sono un londinese, sono un avvocato, un padre, un marito, un tormentato tifoso del Liverpool. Sono anche di fede islamica.  Abbiamo tutti molte identità”. Al di là di questa pur significativa dichiarazione, la sua elezione a Sindaco della maggiore e direi più evoluta metropoli europea è un segno ben preciso  e simbolicamente potente di una possibile convivenza fra Occidente e Islam.
Un altro significativo segnale in questa direzione  viene dall’Italia  dove, alcuni giorni fa, la Confederazione islamica italiana, cui aderiscono oltre 300 moschee e che è quindi rappresentativa di questa comunità, ha avuto un incontro con autorità italiane, la CEI,  Il rabbino capo della comunità  ebraica di Roma , alla presenza del Ministro per gli affari religiosi del Marocco, in vista di un’intesa con lo Stato italiano che potrebbe essere favorita dalla prossima vista del nostro Premier in tale Paese e che è fondata sull'adesione ad una condivisa "carta dei valori"
Questi segnali positivi non possono oscurare i problemi derivanti dalla componente radicale dell’Islam ,che comporta gravi  rischi anche per l’Italia, ma indicano una prospettiva di integrazione che è possibile costruire con  il contributo delle comunità islamiche disposte ad accettare i principii fondanti della cultura occidentale.

giovedì 12 maggio 2016

Le falle nel codice degli appalti

Pubblico un eccellente articolo di Sergio Rizzo  apparso recentemente  su Il Corriere della Sera  ( "Cantone non potrà indagare  su gare interiori a 5 milioni. Le falle nel codice degli appalti") che evidenzia come una riforma  molto promettente e necessaria sia stata depotenziata e rischi di trasformarsi in una beffa. E' necessario che la società civile si faccia sentire al riguardo e un'occasione sarà il Convegno sulla Trasparenza ideato dalla rete romana Carteinregola e organizzato in collaborazione con  l'associazione milanese Le Forme della Politica. All'iniziativa, che avrà luogo in autunno a Roma, hanno aderito i principali organismi associativi italiani impegnati nella lotta alla corruzione. Ne darò  dettagliata notizia al momento opportuno.

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«Il massimo ribasso è morto, viva il massimo ribasso!». Avrebbero potuto annunciare così, venerdì scorso, il nuovo codice degli appalti. Una riforma che avrebbe dovuto rendere più agevole e trasparente la strada delle opere pubbliche, e soprattutto stroncare la corruzione. Dove invece non mancano sorprese: nella migliore tradizione di una politica per cui il confine fra gli interessi della collettività e quelli delle lobby è sempre impalpabile.
I due pilastri della rivoluzione
I pilastri della rivoluzione dovevano essere solidi e qualificanti. Due, sopra tutti. Il primo: la fine della regola del massimo ribasso. Si tratta del meccanismo per cui le gare vengono assegnate a chi offre il prezzo minore, salvo poi consentire all’impresa di recuperare con lauti interessi grazie a varianti sempre generosamente concesse da compiacenti stazioni appaltanti. Ragion per cui è considerato uno dei principali incubatori della corruzione .
Il potere dei gruppi di pressione
Ecco allora la promessa: non più gare aggiudicate al prezzo minore bensì con la valutazione dell’offerta più vantaggiosa sotto vari aspetti. Una rivoluzione epocale capace di mettere in ginocchio un sistema collaudato da decenni. E i gruppi di pressione si sono subito messi all’opera. Il braccio di ferro sulla soglia minima dell’importo da cui partire per applicare il nuovo metodo si è rivelato inevitabile, non appena la bozza del codice degli appalti scritta dal governo in base alla legge delega è sbarcato in parlamento per il parere. Non soltanto con le imprese e i burocrati degli uffici legislativi, ma pure con le Regioni guidate dal presidente dell’Emilia-Romagna Stefano Bonaccini, e con l’Anci di Piero Fassino: entrambi esponenti del Partito democratico.
Il braccio di ferro
In quindici mesi i due relatori (Stefano Esposito e Raffaella Mariani, entrambi del Pd) hanno cercato di sanare le magagne ed eliminare le pillole avvelenate. Si erano guadagnati anche l’approvazione del presidente dell’Autorità anticorruzione Raffaele Cantone, il quale considerava il parere parlamentare un ottimo risultato. Avevano proposto 150 mila euro come soglia oltre la quale il massimo ribasso doveva essere bandito. E non era stato facile. L’Ance, l’associazione dei costruttori edili presieduta da Claudio De Albertis, chiedeva, all’unisono con la Conferenza Stato-Regioni, di alzare il tetto a due milioni e mezzo. Sia pure con l’esclusione automatica delle cosiddette «offerte anomale».
Una mezza Caporetto
Per i due relatori è finita con una mezza Caporetto. Il testo finale varato dal consiglio dei ministri venerdì 16 aprile non ha tenuto in alcun conto su questo punto, uno dei più delicati, il parere delle Camere. E non ha avuto successo neppure la mediazione del ministero delle Infrastrutture, che puntava su una soglia di 500 mila euro. Dunque il massimo ribasso, in una forma di fatto identica, sopravviverà pure con il nuovo codice per le gare fino a un milione di euro. Che sono l’81 per cento del totale.
Il ruolo dell’Anticorruzione
Il secondo pilastro era il coinvolgimento dell’Anticorruzione. La scelta dei commissari di gara sarebbe stata affidata a Cantone, che li avrebbe sorteggiati da un apposito elenco. Questo per evitare qualunque rischio insito nella nomina delle commissioni aggiudicatrici da parte delle amministrazioni locali. Le quali non hanno fatto salti di gioia all’idea di perdere tutto quel potere. E hanno lavorato in profondità. Con successo.
Spese troppo alte
Così i commissari dell’Anac avranno voce in capitolo solo a partire da gare di importo superiore a 5,2 milioni. Il che equivale a dire che il 95 per cento degli appalti verrà assegnato esattamente come prima. L’argomentazione che ha convinto il governo? Regioni e Comuni sostenevano che con i commissari Anac si spendeva troppo: evidentemente scordando che oggi la corruzione fa lievitare del 40 per cento il costo delle opere pubbliche in Italia. Lo dice una stima del fu governo di Mario Monti. E Renzi, che ha definito il nuovo codice «una riforma strutturale con regole semplici e meno astruse che chiude le strade alla corruzione», se la ricorda?

lunedì 2 maggio 2016

Burocrazia: ottusa lei oppure ottuse le norme ?



di Giorgio Calderaro

Poco tempo fa, in un articolo apparso sul Corsera, Susanna Tamaro si lamentava dell’ottusità della burocrazia, che, tra l’altro, non le permetteva più di far vendemmia con gli amici non sapendo la burocrazia distinguere tra loro, che vendemmiano in cambio di una abbuffata in compagnia e qualche bottiglia, e chi vendemmia in cambio di un salario con relativi contributi.
Poiché il tema dell’ottusità della burocrazia, che non è in grado di capire le situazioni in cui versa la gente, è a mio avviso di interesse ed attualità, soprattutto se si parla di rendere l’Italia un paese competitivo ed attrattivo per insediamenti lavorativi nuovi, ho deciso di approfondire la questione sollevata da Susanna Tamaro, ma qualche giorno dopo anche dalla Repubblica e l’11 di nuovo sul Corsera a proposito della burocrazia europea, e vissuta sulla propria pelle da tutti i cittadini. Mi concentrerò sulla burocrazia che redige le norme, lasciando ad altra occasione le riflessioni sulla burocrazia che applica le norme.
Cominciamo la riflessione con qualche esempio.

1.     Esempi di ottusità

·         Il caso degli amici vendemmiatori: per contrastare il lavoro in nero nei campi, la burocrazia ha deciso che chi lavora nei campi è necessariamente un salariato, che deve essere messo in regola con i contributi. Sicché chi ha una piccola vigna non può più raccogliere l’uva, mentre chi ha estensioni di pomodori può tranquillamente ricorrere a caporali e immigrati clandestini.
·         Il caso di quel tizio che, a Milano, si infila nella ZTL di corso Garibaldi (dove c’è una telecamera ad ogni incrocio) e si vede contestata una contravvenzione ad ogni incrocio. Eh certo, quello delle contravvenzioni è un processo automatico; chi ha l’ardire di intervenire?
·         Il caso delle detrazioni per ristrutturazioni edilizie: dalle 35 pagine di istruzioni dettagliate dell’Agenzia delle Entrate si deduce, ad esempio, che reimbiancare le scale comuni è detraibile mentre reimbiancare casa propria no: perché questa distinzione?

2.     Analisi degli esempi

Da questi esempi sembra di poter estrarre alcune considerazioni:
·         Non potendo disporre di un criterio oggettivo per discriminare dai casi di abuso i fatti che il buon senso riconosce subito, si preferisce la norma drastica.
·         Non essendo definibile il buon senso, si preferiscono norme che discriminino sottilmente tutti i possibili casi e che assegnino ad ogni caso l’inquadramento normativo. Così abbiamo norme leviataniche, eternamente rappezzate, in cui manca il principio guida a cui ispirarsi nei casi pratici che inevitabilmente sfuggono o potranno sfuggire in futuro. Sembra che l’elencazione minuziosa di casi e sottocasi abbia la sola funzione di limitare al più possibile la fruizione dell’oggetto della norma oppure di scoraggiarne la fruizione da parte del cittadino comune.
·         Sembrerebbe che il normatore, frettoloso e miope, viva in un altro pianeta, dove non si parli italiano ma un’altra lingua pur somigliante: dove le parole hanno un significato specifico, noto solo all’interno della burocrazia stessa, dove alla chiarezza dell’esposto è preferito il bizantinismo delle costruzioni, dove l’ambiguità dell’esposto è serva dei compromessi politici (cfr in proposito il corsivo di Paolo Di Stefano sul Corsera del 13 aprile).
In sintesi, secondo me, la caratteristica fondamentale della burocrazia normativa è quella di essere autoreferenziale e autoalimentante, di agire in conto proprio e non per conto e a favore dei cittadini. E questo a partire dal parlamento (primo organo legiferante) per estendersi alla numerosità di Enti che scrivono e gestiscono norme (dai Ministeri ed Enti statali in giù, sino ai Comuni).
Quanti progetti di semplificazione normativa o razionalizzazione apparentemente hanno fatto la fine di un famoso falò? Di quanti progetti di testi unici non se ne sa più nulla? Che fine han fatto i progetti di razionalizzazione delle competenze dei centri normativi? Quante volte a importanti disegni di legge poi corrisponde un articolato annacquato e sterilizzato?

3.     Possibile contromisure

Sarebbe bello che ogni nuova norma venisse sottoposta al vaglio di applicabilità da parte dei semplici cittadini, magari a sorteggio e senza conflitti di interessi, tramite un organo a questo preposto. Oppure da parte delle associazioni dei consumatori, che dei cittadini prendono le parti di fronte ai poteri.
E quest’organo dovrebbe poter intervenire su chiunque emetta normative: sulla pubblica amministrazione centrale e periferica, ma anche su banche, assicurazioni, ecc: con l’obiettivo di compensare l’asimmetria di potere di questi Enti, che altrimenti ribaltano sui cittadini quanto invece dovrebbe restare di loro responsabilità.
Questo contropotere sarebbe in grado di bilanciare la protervia arrogante della burocrazia, e magari potrebbe anche intervenire nei casi in cui il buon senso possa aiutare a discernere quando in caso specifico si verifichino abusi o no, sollevando il pubblico funzionario dall’incubo dell’Abuso di Ufficio.
Questo contropotere potrebbe anche intervenire sulla molteplicità delle norme, proponendo semplificazioni nel dettato e nella gestione.
Visto che la norma discende verso i cittadini a partire dall’organo normativo, secondo me è indispensabile introdurre un canale di ritorno: che dai cittadini riporti verso l’organo preposto le disposizioni ritenute poco efficaci e che possa produrre le opportune rettifiche, anche quando il tema non sia più sotto la luce dei riflettori della politica. Non alludo al referendum propositivo, che ha l’obiettivo di introdurre nuovi ordinamenti; alludo alla possibilità di ritoccare in tempi utili norme esistenti.
Infatti si discute in merito alla creazione di commissioni di cittadini a sorteggio per alcune funzioni di controllo, ad esempio sugli appalti. Quanto sto intravvedendo è una commissione di cittadini a sorteggio per controllare le leggi.
Chissà …