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martedì 21 giugno 2016

Crescere: perché? Come? Quando? O forse è meglio toglierselo dalla testa?

di Giorgio Calderaro


Si deve crescere perché ogni anno servirebbe un po’ più di denaro per noi, per ridurre le tasse, per pagare il debito, per fare investimenti produttivi, per pagare un po’ di più di pensioni, per avere qualche occupato in più.
Sarebbe bello fare un po’ più di debito e dare subito un po’ più di soldi alla gente: ma questo, se fatto in misura significativa, genera subito più inflazione e prezzi più alti e quindi alla fine siamo allo stesso punto di prima. Con buona pace della crescita finanziata dal debito che tanto piace a qualche politico e qualche sindacalista.
Si dovrebbe esportare molto di più. Sì, però peccato che i mercati tipici italiani (lusso, macchinari industriali, ecc.) tirino un po’ meno: anche da loro c’è un po’ di crisi, crescono meno e comprano meno lusso e meno macchinari industriali per sviluppare la loro industria. E poi, lo dice il FMI, il mondo sta crescendo meno, forse il 2% all’anno (ma almeno riuscissimo a “prendere” quello!)
E allora a chi vendo di più, se tutti hanno problemi? Non c’è più nessuno a cui vendere di più e quindi la crescita è meglio togliersela dalla testa.
A meno che non individuiamo una “cosa” da vendere che solo noi abbiamo e che, come inventata, sia subito richiesta da molti: in tal caso ecco che PIL e occupazione crescerebbero in modo significativo.
L’unica iniziativa recentemente apparsa sui giornali e che va il tal senso è l’idea del ministro Del Rio, che vuole realizzare un sistema merci veloce tra il porto di Genova e la Svizzera, facendo anche uso del recentissimo nuovo tunnel del Gottardo. L’idea è ottima: se tale sistema si dimostrasse davvero efficiente, allora in breve tempo il traffico merci a lunga distanza della Svizzera abbandonerebbe il più lontano porto di Rotterdam e privilegerebbe la nostra soluzione. In tal caso dunque il PIL e l’occupazione riferibili a questa iniziativa crescerebbero rapidamente. È ovvio che ci si augura che tutti gli interessati (Ferrovie, Porto, Scaricatori del Porto, Dogane, Comuni toccati dall’iniziativa, ecc. ecc.) remino a favore, testimoniando una virtuosa collaborazione tra Governo, Enti Centrali e Enti Locali.
L’iniziativa or ora descritta rappresenta un ottimo esempio di quello che vuol dire “inventare nuove soluzioni” altamente competitive, da replicare il più possibile.
Essa  è anche un esempio di re-industrializzazione: una volta il porto di Genova primeggiava per traffico merci, ora la proposta Del Rio lo “reinventa” in nuova chiave con un sistema industriale di logistica integrata.
Secondo me, pertanto, la via principe per aumentare velocemente PIL e occupazione è favorire ampi re-insediamenti industriali, costruendo le condizioni per cui, per un imprenditore, sia più vantaggioso investire in Italia per produrre: in tal caso noi venderemmo le opportunità messe disposizione dal nostro Paese. Produrre a minori costi non vuol dire abbassare gli stipendi in una qualche delle forme inventabili (facendo così la gente avrebbe meno soldi da spendere e l’obiettivo sarebbe vanificato) ma vuol dire provare a contenere i fattori di costo che alla fine si scaricano sul costo del prodotto: costi della burocrazia per aprire le imprese, costi della burocrazia per gestire le imprese, costi del denaro, costi dell’energia, costi dei trasporti, costi della formazione del personale, ecc. ecc.
Costituendo così un nuovo patto tra produttori e politica, finalizzato a favorire l’industria anche attraverso investimenti in infrastrutture (che consentono alle imprese di produrre a costi inferiori) e regolamentazioni specifiche: l’industria è cosa buona e va favorita, favorire gli imprenditori non è reato, chi crea posti di lavoro va favorito.


domenica 12 giugno 2016

La classifica mondiale della competitività

di Riccardo Fracasso - FINANZA E DINTORNI  -  http://finanzaedintorni.info/

La IMD è una business school (scuola d’affari) che, tra l’altro, dal 1989 pubblica annualmente, a Maggio, il World Competitiveness Yearbook (WCY), una classifica sulla competitività di 61 Paesi tra i più importanti al mondo.
Difatti, i risultati di un’impresa non dipendono esclusivamente dalla propria qualità, ma anche dal contesto nel quale esse operano.
Fino al 1996 erano stese due graduatorie (economie avanzate ed economie emergenti), ma dal 1997, col processo della globalizzazione, s’è deciso di unificarle.
Il WCY è considerato il punto di riferimento mondiale sulla competitività delle nazioni, tant’è che è utilizzato dalle aziende (per determinare gli investimenti), dai Paesi (per stabilire le politiche da attuare) e dagli studiosi (per apprendere ed analizzare).
Esso esamina la capacità delle nazioni di creare e mantenere un ambiente in cui le imprese possano competere.
Sono oltre 340 i parametri presi in considerazione dal WCY tra i quali ricordo alcuni dei più importanti: la valuta, il mercato del lavoro, la pressione fiscale, la capacità produttiva del tessuto economico, le infrastrutture, gli investimenti, l’istruzione, un ceto medio numeroso, la burocrazia, la qualità della vita, la presenza nel territorio di materie prime, il patrimonio culturale, l’efficienza del governo, l’ambiente, la salute, il livello dell’inflazione, la demografia, la ricerca e l’innovazione, la diversificazione, la coesione sociale, ecc.
Ecco la classifica diffusa pochi giorni fa dall’IMD:
IMD - WCY 2016 - Classifica competitività
IMD – WCY 2016 – Classifica competitività
Da evidenziare:
  • balza al primo posto Hong Kong a scapito degli Stati Uniti che perdono due posizioni;
  • il primo Stato Europeo è la Svizzera (2°) mentre il primo dell’Unione Europea e dell’Area Euro è l’Irlanda (7°) che…
  • … rappresenta anche il Paese col miglioramento più significativo, con ben 9 posizioni guadagnate rispetto al 2015;
  • la peggiore discesa è, invece, del Kazakistan che perde ben 13 posizioni rispetto all’anno scorso (dal 34° posto al 47°);
  • anche quest’anno nessun Paese tra quelli dell’America Latina rientra tra i primi 30 posti;
  • prosegue il miglioramento della nostra Italia, che pur rimanendo nella colonna di destra, recupera altre 3 posizioni (balzando dal 38° al 35° posto) che si aggiungo alle 8 dello scorso anno, avvicinandosi alla sua migliore postazione (29° nel 1999). Pur sapendo che la risalita potrebbe anche essere spinta più dai demeriti di altri Paesi che da meriti italiani, è giusto registrare positivamente questa tendenza.

giovedì 2 giugno 2016

Media e Magistratura: i veri problemi della politica



In un recente editoriale il Direttore del Corriere della Sera Luciano Fontana ha scritto:
“Mancano cinque mesi al referendum sulla riforma costituzionale promossa dal governo Renzi ma è come se si dovesse votare fra pochi giorni. I toni sono già accesi e lo scontro si concentra su temi a volte surreali………………….. Il dibattito ideologico sul tradimento dei valori della Resistenza, su chi sta al fianco di Casa Pound, sulla presunta eredità di Berlinguer e Ingrao, su come si schierano i partigian,, sembra un’arma di distrazione di massa. Gli italiani vogliono sapere se le modifiche proposte avranno conseguenze positive o no sull’attività legislativa e di governo, se l’equilibrio dei poteri non sarà alterato troppo a favore dell’esecutivo…., se il nuovo Senato, ridotto di numero, renderà davvero più rapidi il processo di formazione delle leggi e l’azione di governo.”
Tale descrizione esprime opportunamente la distanza fra ciò che chiedono gli elettori e il nulla di cui discutono  spesso i loro rappresentanti, che fanno la gara a  chi la spara più grossa, ma non dice quali sono le cause di tale comportamento.
Questo fenomeno, che non è solo italiano, è il frutto di una profonda degenerazione dei sistemi politici occidentali che,   come ha ben detto lo scrittore belga David Van Reybrouck nel suo mirabile libro “Contro le elezioni, da attori principali della scena pubblica  sono diventati strumenti del sistema mediatico che li obbliga, per essere presi in considerazione, a tenere i toni sempre alti e a estremizzare le proprie posizioni. Ciò al fine del conseguimento di obiettivi commerciali dei media ( fare audience, aumentare il numero di copie vendute, vendere pubblicità, ecc) e di altri obiettivi dei poteri economici che li controllano.
Di questo meccanismo è stato vittima in Italia anche il Movimento 5 Stelle che era partito con l’intenzione di tenere a distanza gli organi d’informazione, visti come espressione dei poteri forti, ma che ha ormai sposato in pieno la visibilità mediatica  come obiettivo e  partecipa come attore primario alla rissa politica permanente.
Diversi commentatori hanno scritto che malgrado i richiami ad una maggiore sobrietà  fatti al riguardo anche da importanti ruoli istituzionali, come il Presidente del Senato, la situazione non cambierà perché è troppo forte l’interesse dei partiti a catturare l’attenzione dei media al fine di acquisire il consenso dei cittadini.
A mio avviso questo ragionamento è sostanzialmente errato perché,  se è vero  che urlando e insultandosi vicendevolmente i politici ottengono certamente l’attenzione dei media, è proprio  tale attenzione che impedisce loro di  riscuotere il consenso dei cittadini. Non ci sono dubbi infatti che “il teatrino della politica” non interessa più a nessuno e che la sovraesposizione mediatica è la ricetta più sicura per l’insuccesso elettorale e non solo nel nostro Paese. La riprova  è venuta in modo inequivocabile dalle recenti elezioni presidenziali dell’Austria dove i due partiti fino a ieri dominanti con oltre l’80% del consenso elettorale e con la maggiore presenza nei media sono stati semplicemente spazzati via dagli elettori che hanno puntato sui candidati di due partiti minori, i verdi e il partito nazionalista.  Ai due partiti maggiori, tanto seguiti da stampa e TV, è rimasto solo il 20% dei consensi e questo è un forte segnale di allarme per tutto l’establishment  politico europeo. Un’altra conferma che viene dall’Austria è che i pregiudizi ideologici  contano ormai poco nelle scelte che gli elettori fanno fra diverse forze politiche e che le etichette di comodo spesso usate per ostacolarne alcune ( tipo gli epiteti di  xenofobo e razzista appioppati a chi non segue le insane regole del “politicamente corretto”) non consentono più di esorcizzare i problemi sostanziali di un Paese. Ad esempio quelli che una migrazione massiccia e incontrollata certamente pongono alla popolazione anche quando essa sia ispirata dai valori dell’apertura e della solidarietà.
Nello specifico italiano la situazione è poi  assai complicata dal ruolo assolutamente improprio che una parte della magistratura pretende di svolgere, non solo partecipando direttamente alla contesa politica malgrado il ruolo di terzietà e super partes che le affida il nostro ordinamento, ma anche ergendosi a  “magistratura costituzionale” in grado di giudicare  non solo i reati ma anche i comportamenti politici e di stravolgere le leggi emesse dal potere legislativo.  E’ un sopruso di estrema gravità, che non ha uguali in altri Paesi civili, reso possibile dalla debolezza delle forze politiche, che – se le cose vanno avanti così – potrebbero essere messe sotto tutela dalla parte militante della magistratura. Questo sarebbe davvero uno stravolgimento della Costituzione la quale  prescrive chiaramente  la separazione dei poteri.  Ha scritto al riguardo sul Corriere della Sera Angelo Panebianco: “ Quando l’autonomia della politica era rispettata, la magistratura ordinaria  accettava che suo compito fosse solo l’applicazione delle leggi votate dal Parlamento (dunque dalla politica). Non credo passerà molto tempo prima che anche decisioni squisitamente  politiche come quelle  che riguardano il varo delle leggi finanziarie finiscano al vaglio  di procedimenti giudiziari ordinari per presunte violazioni della costituzione”.
A mio avviso se  la politica italiana vuole disattivare questo rischio per lei potenzialmente mortale, deve riacquistare credibilità e può farlo solo liberandosi dalle logiche  del sistema mediatico, cioè rifiutando la sua costante pretesa di  avere “notizie”, intese come fatti oppure opinioni eclatanti e derivanti da contrapposizioni spesso artificiali. Si tratta cioè di  concentrarsi sui contenuti evitando lo sterile “ping pong” di slogan ad effetto e di accuse reciproche mirante a delegittimare gli avversari, al quale assistiamo  quotidianamente con crescente disagio.
Ritengo che un approccio basato sull “understatement”, cioè sul mantenere un basso profilo anziché cercare visibilità a qualunque costo,  sarà la carta vincente del futuro, capace di riavvicinare i cittadini alla politica: il partito o movimento che per primo e senza deflettere farà proprio questo orientamento, avrà un forte vantaggio competitivo  nell’agone della politica e contribuirà a cambiarne le regole di funzionamento.