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giovedì 29 giugno 2017

Immigrazione: parliamone seriamente



L’Italia è l’unico Paese occidentale che non pone limiti all’immigrazione, che viene considerata dalle Autorità, da varie forze politiche e dai media come un “fenomeno epocale ed ineluttabile”.
E’ un approccio ideologico molto pericoloso  perché si ammanta di valori quali la necessità di salvare vite umane a rischio, l’accoglienza e l’inclusione che sono in linea di principio condivisibili, ma che non lo sono più se diventano il pretesto per adottare un modello di apertura indiscriminata, necessariamente ingestibile.
L’unico altro  Paese occidentale che ha provato, in tempi recenti, ad applicare questo modello è stata la Germania che nel 2015 si era proposta di accogliere senza limiti i profughi siriani ma ha dovuto fare rapidamente marcia indietro perché travolta dalla marea di richiedenti asilo.
Tutti gli altri Paesi europei hanno sistemi di controllo dei flussi che sono più o meno efficienti ma che escludono comunque il concetto dell’apertura totale.
Ne consegue che l’Italia accoglie ormai oltre l’80% dei profughi che attraversano il Mediterraneo mentre altri Paesi che si trovano in condizioni teoricamente simili alle nostre, come la Spagna, assorbono una quota irrisoria degli arrivi.
Le cause di tutto ciò sono due: anzitutto  il buonismo, alimentato dalle posizioni della Chiesa Cattolica e di Papa Francesco, per cui è necessario trattare tutti come fratelli: principio valido a livello religioso e come valore personale ma che non può essere il principio guida di uno Stato. Il secondo è il lassismo, per cui si tollerano varie forme di collusione con le bande che organizzano il lucroso traffico e che speculano sul dramma dei migranti.
Le dodicimila persone recentemente  arrivate in  soli due giorni sulle nostre coste, trasportate da  25 delle 70 navi che fanno la spola dalle coste libiche ai nostri porti, segnalano che il problema non è affatto sotto controllo ma che dipende dalla volontà di bande criminali che possono regolare a loro piacimento la dimensione di flussi anche con la concreta minaccia di aumentarli drasticamente in tempi brevi, se ostacolate. Lo Stato italiano è quindi ostaggio di gruppi criminali e la consapevolezza di questa triste situazione è ben diffusa a livello internazionale ed è uno dei fattori che alimentano il flusso migratorio. E’ quindi un cane che si morde la coda.
Per affrontare seriamente il problema non servono gli anatemi lanciati da alcune forze politiche d’opposizione che vorrebbero semplicemente bloccare i flussi oppure, come si dice “aiutare i migranti a casa loro”, perché entrambe queste soluzioni sono impraticabili: la prima perché comporterebbe un vero e proprio blocco navale con respingimenti dei battelli usati dai migranti e il rischio assai concreto di pesanti tragedie del mare; la seconda perché “casa loro” è il mondo ed è impensabile che ci si possa fare carico dei problemi di sussistenza e sviluppo dell’intera umanità.
L’unica soluzione possibile è governare il problema senza subirlo passivamente, il che comporta anzitutto accettare e praticare il principio per cui uno Stato che non difende i propri confini di fatto non esiste.  In termini pratici ciò implica numerose azioni; ne indico solo alcune come esempio e stimolo per un dibattito:

1 – Affermare e farlo sapere ovunque che l’Italia, pur essendo aperta ai fenomeni migratori, intende stabilire dei limiti annuali al numero di persone accoglibili e che, al raggiungimento di tali limiti si provvederà a riportare ai Paesi o alle coste di provenienza i migranti in eccedenza in base a criteri legati all’esistenza o meno di certi requisiti. Ciò richiede la collaborazione degli Stati interessati, in particolare la Libia. Con tali Stati andrebbero concordate azioni di serio contrasto alle bande criminali
E’ certo che basterebbe un numero  limitato di rientri per creare un deterrente alle partenze indiscriminate e per affermare la necessaria autorità dello Stato. Si tratta di mandare, con atti concret,i un messaggio forte e chiaro: siamo accoglienti ma non siamo in grado di  accogliere tutti.

2 – Prevedere l’impiego sistematico degli immigrati accolti in lavori socialmente utili in cambio dei costi sostenuti per l’accoglienza, fino a che abbiano trovato un posto di lavoro in grado di renderli autonomi. Ciò ridurrebbe le resistenze all’immigrazione e trasformerebbe, almeno in parte, il problema in un’opportunità.

3 – Dare supporto ai migranti per l’apprendimento della nostra lingua , dei fondamenti della nostra cultura e delle regole vigenti, con verifiche periodiche sullo stato della loro integrazione nel nostro Paese.

Le predette iniziative non sono in sé risolutive ma segnerebbero un’inversione di tendenza rispetto all’attuale critica situazione che  fa dell’Italia il “ventre molle dell’Europa” e che è vissuta assai negativamente dai nostri connazionali, come dimostrano recenti sondaggi e gli stessi risultati delle elezioni amministrative.
E’ proprio ai risultati di queste elezioni che si deve la reazione del Governo che finalmente si è deciso a porre precise condizioni all’Europa per continuare ad accettare nei nostri porti navi cariche di immigrati, fra cui una distribuzione degli sbarchi anche nei Paesi da cui provengono le navi.
Bisogna dare atto al Governo di aver fatto una giusta mossa e all’opposizione di averlo riconosciuto, sia pure  a volte a denti stretti. Il tema dell’immigrazione è troppo serio per trattarlo come terreno di lotta e di speculazione politica: occorre un approccio “bipartisan” se non vogliamo che la situazione sfugga completamente di mano.
Ribadisco che, pur essendo importante chiedere agli altri Paesi europei di fare la loro parte, il pallino resta in mano all’Italia: solo se riafferma la propria autorità nel gestire i flussi e e nel coniugare l’accoglienza e il rispetto delle regole, il problema potrà essere risolto.



venerdì 16 giugno 2017

Se anticipi il voto, non ti voto



Nel precedente post ho scritto che si era aperto uno squarcio di luce con il tentativo di accordo sulla legge elettorale, ma si è trattato di una breve interruzione: ora i partiti sono tornati ai consueti giochini,  il cui aspetto più stupefacente  è che ciascuno ritiene di essere più furbo degli altri, con la conseguenza che tutti perdono credibilità: la crescente astensione degli elettori alle recenti amministrative ne è la riprova.  Emblematica ed anche paradossale  è la situazione di Genova, città natale di Grillo, dove l’astensione ha superato il 50% e  i Cinque Stelle non sono arrivati al ballottaggio, riducendosi ai minimi termini (Circa il 3%) e ridando fiato ai partiti tradizionali.
Il problema di fondo è che, se i Cinque Stelle si stanno rivelando dei veri e propri “dilettanti allo sbaraglio”, sballottati fra lotte fratricide e umoralità del  cosiddetto Garante, che riesce solo a garantire l’inc oerenza, il PD è preda di una affannosa sindrome di rivalsa che vorrebbe superare in fretta la sonora sconfitta referendaria, a costo di oscillare con estrema spregiudicatezza fra l’alleanza con Berlusconi e quella con Pisapia, quasi che le due scelte fossero intercambiabili.  A un giornalista che gli ha chiesto se ,come Renzi, sarebbe disponibile a un accordo con Berlusconi, Pisapia ha risposto: “No, sarebbe come chiedere a un vegano di mangiare carne”.
Eppure, nel grande calderone  della politica italiana, fra la confusione di Grillo e la spregiudicatezza di Renzi, sembra proprio che ad avvantaggiarsene sia l’asserita ” responsabilità” di  Berlusconi, visto che il Centrodestra è in vantaggio nella maggior parte dei comuni che andranno al ballottaggio. Si sa che alle amministrative, giocano molto i fattori locali, tuttavia  la predetta tendenza non può essere ignorata. Il vantaggio del Centrodestra è quindi frutto più delle debolezze altrui che dei propri meriti, essendo esso stesso scosso dalla perenne lotta per la leadership fra Berlusconi e Salvini.
E’ un quadro che, in vista delle future elezioni politiche, si  presterebbe bene al nascere di una candidatura esterna alle forze in campo, un “Macron italiano”, capace di sparigliare i giochi ormai consunti dei nostri attori politici, ai quali si sono ormai ampiamente adattati anche i grilini.   Io ritengo che non manchino i potenziali candidati a questo ruolo,  ma si tratta di vedere se, oltre alle competenze politiche e istituzionali, avranno il coraggio di sfidare l’establishment.
Anche se questa ipotesi non si realizzasse, ce n’è un’altra che deve assolutamente concretizzarsi :il rifiuto da parte dell’elettorato di accettare elezioni anticipate che oggi sembrano allontanarsi ma che potrebbero nuovamente saltar fuori nei prossimi mesi.
La legislatura ha una durata di cinque anni e si conclude nel ferraio 2018. Essa può essere interrotta solo per gravi ragioni che oggi non sussistono e che compete al Capo dello Stato, non ai partiti, valutare.
Su questo tema probabilmente verrà presentato un appello alle forze politiche affinché desistano da ulteriori tentativi d’interrompere la legislatura e ai cittadini affinché lo sottoscrivano. Il messaggio da inviare ai politici è espresso dallo slogan che è il titolo di questo post: “se anticipi il voto, non ti voto”.

giovedì 1 giugno 2017

Occorre un Macron italiano ?



Fino a pochi giorni fa il nostro Paese sembrava inesorabilmente  vittima dell’inconcludenza della politica,  che metteva in atto reiterati “giochini” sulla legge elettorale  senza la capacità di concordare sulle basilari regole del gioco, e  dell’invadenza della magistratura che proseguiva imperterrita nel far trapelare  illecitamente notizie che non sono notizie ma solo strumenti per intromettersi indebitamente nella battaglia politica.
Ora sul primo dei due fronti sembra aprirsi uno squarcio di luce, con l’intenzione manifestata dalle tre principali forze politiche di adottare un modello elettorale simile a quello tedesco: un sistema proporzionale con correttivi atti a consentire la governabilità. Va detto però che lo sbarramento al 5% e il premio di maggioranza non sarebbero di per sé sufficienti, in quanto andrebbero integrati con due dei tratti salienti del sistema vigente in Germania e cioè il primato del Capo del Governo sui ministri e la cosiddetta “sfiducia costruttiva”, cioè l’impossibilità di sfiduciare un governo senza indicare un’altra compagine sostenuta da un’adeguata maggioranza. Staremo a vedere cosa verrà fuori dal confronto in atto in Parlamento.

Resta invece intatto il secondo nodo, essendo ormai accertato  che non solo i Partiti tradizionali ma anche il Movimento 5 Stelle, che si presentava come fortemente diverso dagli stessi, non sanno rinunciare a strumentalizzare ogni tema in discussione per bassi calcoli di convenienza          ( basta pensare all’uso che si fa di illecite intercettazioni).  Questo comportamento è autolesionista perché  mette il sistema politico alla mercé di alcuni magistrati che cercano visibilità, spesso ai fini di una carriera politica, e sono per questo disposti a infrangere clamorosamente la legge. Questa situazione è intollerabile e quindi le collusioni giudiziarie/ mediatiche/ politiche, devono essere impedite ad ogni costo.

Se l’attuale sistema politico non saprà superare i problemi presenti, sarà necessario valutare seriamente la possibilità di un’alternativa radicale che potrebbe ispirarsi alla realtà francese, dove un giovane, con esperienze istituzionali ma  senza alcuna forza organizzata alle spalle, ha saputo sfidare i partiti  con un movimento totalmente nuovo e, in meno di un anno, sconfiggerli. Ciò è la riprova che, nel Paesi occidentali, la fluidità  del voto elettorale è ormai altissima e può cambiare totalmente e in breve tempo  il quadro politico. Cercare di difendere lo status quo con alleanze “di  Palazzo” è di fatto impossibile.
Come Macron ha detto in campagna elettorale e scritto chiaramente nel suo recentissimo libro “Rivoluzione” occorre partire da un’ “operazione verità”, cioè dire con chiarezza cosa non va e quali sono i punti di forza su cui far leva per il cambiamento. Guardando alla realtà italiana e ai temi concreti, non c’è dubbio che il problema più grave sia quello di un debito pubblico mostruoso ( 2300 miliardi, il maggiore dei paesi occidentali in rapporto al PIL), frutto di una dissennata tendenza pluridecennale  a comprare il consenso elargendo benefici e privilegi a destra e a manca, a carico delle generazioni future. Se non si affronta realmente questo problema, la cui soluzione non può certo essere indolore, non c’è alcuna possibilità di  vero rilancio economico: non è vero  infatti che la ripresa è condizione per ridurre il peso del debito ma è vero esattamente il contrario: solo riducendo il debito e quindi acquisendo credibilità nei mercati, si riduce lo spread e dunque  i costi da sostenere per il pagamento dei  relativi interessi. Ciò è confermato dal fatto che i tre Paesi europei in cui, negli ultimi cinque anni, la spesa pubblica è stata maggiormente ridotta in percentuale sul PIL e cioè  Spagna, Gran Bretagna e Irlanda, sono quelli che hanno avuto nel 2016 la crescita più elevata (+ 3,2 in Spagna, + 1,8 in Gran Bretagna e + 5,2 in Irlanda).
Affrontare questo  spinoso argomento  è urgente perché le recenti parole di Draghi sul fatto che la ripresa europea è solida, se sono un segnale positivo per molti Paesi, non lo sono per l’Italia che potrebbe essere messa definitivamente in bancarotta dalla riduzione del piano della BCE di “quantitative easing” . Esso ha finora garantito un enorme risparmio sugli interessi che paghiamo per il nostro debito pubblico, malgrado l’aumento della spesa in deficit, ma Il suo graduale venir meno, accompagnando la crescita dell’ inflazione in Europa, produrrà inevitabilmente il rialzo dei tassi d’interesse, il cui onere potrebbe diventare insostenibile per l’Italia.

Ma esiste nel nostro Paese un personaggio capace di dire la verità? C’è da dubitarne  ma  è certo che,  in caso positivo,  l’Europa, che ora ci lesina i mezzi punti di flessibilità, ci darebbe certamente una mano. Ciò che la frena è il deficit di credibilità che il nostro Paese ha accumulato nel tempo e che rende le sue richieste a Bruxelles poco convincenti.
E non è assolutamente detto che i cittadini reagirebbero negativamente, se l’onere da sostenere venisse equamente distribuito e non andasse a carico dei “soliti noti” che non hanno possibilità di evasione o di elusione.. I punti d’attacco dovrebbero essere  il taglio degli sprechi tuttora assai diffusi e la riduzione dell’evasione che, in certe categorie economiche, grida vendetta. Ma non potrebbe limitarsi a questo.
Se un  Macron  italiano venisse fuori, il suo primo compito sarebbe, ancor prima della riduzione del debito,  quello di riequilibrare il rapporto con la magistratura, cioè impedire l’invasione di campo che vari magistrati fanno in territori che competono alla politica e che destabilizzano  le  Istituzioni con una grave perdita di efficacia delle stesse. Ribadisco fermamente che questo deplorevole andazzo deve finire. Altro punto da correggere è la lentezza/inefficienza della macchina giudiziaria  che è alla base della ridotta attrattività del nostro Paese per i capitali internazionali, di cui abbiamo assolutamente bisogno per una politica di rilancio.

martedì 16 maggio 2017

Come salvare il parlamento



“La democrazia rappresentativa deve accogliere in grembo un po’ di
fantasia costituzionale"
di MICHELE AINIS

I PARTITI sono dipartiti, amen. Ultimi certificati di morte: l'elezione
di Trump, nonostante l'ostilità dell'establishment repubblicano; e su
quest'altra sponda dell'oceano Macron (che ha sbaragliato i partiti
storici francesi con una start up nata un anno fa) o i 5 Stelle (il non
partito primo in tutti i sondaggi italiani). Benvenuti al funerale,
quindi. E dopo?

Dopo rischiamo d'assistere alle esequie dei Parlamenti. Giacché sta di
fatto che la fortuna delle assemblee legislative coincide con quella dei
partiti politici, il cui battesimo fu celebrato per l'appunto in
Inghilterra, con il Reform Act del 1832. In origine, partiti di
notabili; poi partiti di massa, con l'introduzione del suffragio
universale; infine partiti personali, dove il faccione del leader
tracima in tv. Ma in ogni caso l'astro dei partiti illumina uno
specifico modello di democrazia, quella rappresentativa; e infatti la
loro disgrazia adesso si riflette sulla crisi che ovunque colpisce i
Parlamenti. Tanto che negli Usa il politologo Benjamin Barber suggeriva
di rimpiazzarli con un congresso di sindaci, più o meno come proponeva
Renzi nella prima bozza del nuovo Senato.

Tuttavia non è detto che si debba chiudere baracca. La democrazia
parlamentare può ancora navigare fra i marosi del terzo millennio. Ma a
patto d'imbastardirsi, di contaminarsi con elementi di democrazia
diretta, d'accogliere in grembo un po' di fantasia (o d'eresia)
costituzionale. Ecco cinque suggestioni.

Primo: più forza al referendum. La nostra Carta menziona solo quello
abrogativo, oltretutto tarpandogli le ali con il quorum di validità. E
allora fuori il quorum, dentro il referendum propositivo, già previsto
dalla Costituzione di Weimar del 1919. Dentro altresì l'iniziativa
legislativa popolare vincolante, le consultazioni obbligatorie sulle
grandi opere pubbliche (il modello è la legge Barnier, vigente in
Francia dal 1995), varie forme di democrazia digitale, interpellando i
cittadini attraverso il web. Insomma, sulle scelte pubbliche il dominio
del Parlamento deve trasformarsi in condominio.

Secondo: il peso del non voto. È pari a zero, anche se ormai un elettore
su due diserta le urne. Eppure nessuna assemblea legislativa può
deliberare quando manchi il numero legale, quando cioè sia assente la
metà più uno dei suoi membri. Eppure un Parlamento non votato è un
Parlamento delegittimato. Rimedi: va a votare il 50% degli elettori?
Dimezzo gli eletti, e al contempo ne riduco i poteri, per esempio
vietandogli la revisione costituzionale. Dopotutto nella repubblica di
Weimar scattava un seggio ogni 60 mila voti, sicché i parlamentari erano
in numero variabile. Idem in Austria nel 1970. A ripetere
quell'esperienza adesso, otterremmo quantomeno un risparmio di poltrone.

Terzo: due mandati e basta. Regola che in Italia vale per i sindaci o
per i presidenti di regione, sulla scia del divieto introdotto dagli
americani nel 1951, dopo la quarta elezione d'un uomo che pure si
chiamava Roosevelt. La regola, insomma, colpisce chi riveste ruoli di
governo, non i parlamentari. Giusto? No, sbagliato. Anche perché
altrimenti la politica resterà il mestiere di chi non ha mestiere, come
denunziò Max Weber ( La politica come professione, 1919).

Quarto: il recall. Ossia la revoca degli eletti immeritevoli, attraverso
un referendum personale indetto in corso di mandato. Funziona così in
Svizzera dal 1846, negli Stati Uniti dal 1903, nonché in varie altre
contrade. Ne avremmo urgenza anche in Italia, dove puoi assentarti dai
lavori parlamentari per un anno senza rischiare sanzioni. E dove i cambi
di casacca, dall'inizio della legislatura, toccano quota 469, un record.
Ma quando c'è potere, lì dev'esserci responsabilità. Alle nostre
latitudini c'è viceversa impunità.

Quinto: il sorteggio. Sì, l'estrazione a sorte d'una pattuglia di
parlamentari, per formare un cuscinetto tra maggioranza e opposizione.
Come mostra uno studio condotto utilizzando modelli matematici e
simulazioni al computer (Democrazia a sorte, 2012), ne guadagnerebbe la
credibilità del Parlamento, oltre che il suo tasso d'efficienza.
D'altronde la sorte - diceva
Montesquieu - è al servizio del principio d'eguaglianza, lasciando a
ciascuno "una ragionevole speranza di servire la Patria". Dice: ma così
rischieremmo d'inviare in Parlamento gli incapaci. E perché, ora sono
tutti capaci?

martedì 2 maggio 2017

Patto sociale e meschinerie



di Giorgio Calderaro
Nel nostro osservare le macro politiche e la loro corrispondenza a quanto riteniamo essere i macro movimenti della nostra società, non ci è mai capitato di commentare come un “Patto sociale” sia un ingrediente indispensabile per la convivenza civile.
Il “Patto sociale” è il rispetto reciproco tra le componenti della convivenza: la società civile, forze politiche, forse economiche, forze associative e media; ma questo rispetto è pesantemente calpestato da troppo tempo, tanto da essere diventato il suo contrario la norma prevalente dei comportamenti.
Finché si sottolinea che la società civile debba essere rispettata dalle forze politiche, non avanziamo nulla di nuovo. Ma qui voglio evidenziare come la società civile debba essere rispettata anche dalle altre forze.

Non mi sta assolutamente bene che la polemica politica si accenda con la disinformazione, come recentemente ad esempio in materia di Europa e di lavoro: non c’è talk show in cui i polemisti non suffraghino le loro tesi con dati e informazioni falsi o inventati. Un conto è la libertà di opinione, un conto è la libertà di menzogna. Questa è una grave mancanza di rispetto da parte delle forze politiche e dei media verso la società civile; è una spregevole meschineria che va a danno del Paese.

Non mi sta assolutamente bene che le forze economiche sviluppino il loro business con pratiche quasi truffaldine. Certamente mi riferisco alle banche, che hanno sviluppato politiche degli impieghi suicide, a vantaggio di amici e direttori e a danno di normali investitori e dei cittadini chiamati a rifinanziare con gli interventi pubblici. Ma voglio anche riferirmi a quelle aziende, che pur avendo sistematiche necessità di forza lavoro giovanile, usano spregiudicatamente i contratti a termine reclutando e licenziando in continuazione i giovani. La cifra di questi comportamenti è il disprezzo del potere verso la gente; ma anche la complicità di chi sa e non denuncia e l’omertà di chi deve vigilare e non lo fa. È impossibile conciliare le esigenze di crescita e di impiego (giovanile e non) con la presenza di queste politiche gaglioffe, che costituiscono una grave mancanza di rispetto da parte di alcune forze economiche ed associative verso la società civile e verso le forze politiche; è una spregevole meschineria che va a danno del Paese.

Non mi sta assolutamente bene che gruppi di attivisti blocchino con le loro gesta opere pubbliche finalmente avviate dopo lunghe mediazioni. Il tema è molto difficile, perché siamo tutti ambientalisti a casa nostra e ci dimentichiamo troppo presto che se vogliamo lavoro e sviluppo dobbiamo favorire gli investimenti. Purtroppo, inoltre, la nostra storia recente è piena di opere che hanno devastato il territorio e che hanno confermato a posteriori l’inutilità predetta (vedansi ed es. la Brebemi e l’autostrada Pedemontana, che hanno un tracciato tale da disincentivarne l’utilizzo) e di iniziative approvate che per fortuna poi sono state bloccate grazie (anche?) alla mobilitazione popolare (vedasi ad es. il progetto dei corsi d’acqua intorno all’EXPO, che avrebbero devastato i parchi a ovest di Milano senza aggiungervi alcun valore); qui, a monte, vi sta palesemente l’incapacità progettuale di chi ha concepito tali opere: per rispetto, queste persone dovrebbero ritirarsi a vita privata. Il problema è che, apparentemente per il TAP, vi è stato un ampio processo di coinvolgimento di tutti gli enti interessati  ed un’ampia convergenza su tracciato e procedure si è raggiunta; eppoi, la pratica del ripristino ambientale degli ulivi mi sembra che rappresenti un’ottimo compromesso tra rispetto dell’ambiente e necessità di investimenti strategici. Non si capisce proprio il perché di tante contestazioni: mi sembra una grave mancanza di rispetto da parte di alcune facinorose forze sociali ed associative verso il resto della società civile e verso le forze politiche ed economiche; è una spregevole meschineria che va a danno del Paese.
 
In questi anni di crisi abbiamo capito che alcuni meccanismi che regolano i rapporti tra le parti in Italia vanno modificati nel senso di rendere più facile l'insediamento di nuove imprese, di favorire il lavoro in tutte le sue forme anche in quelle moderne della sharing economy, di ridurre il costo diretto ed indiretto della burocrazie semplificando adempimenti e regolamentazioni, di favorire i finanziamenti alla imprese: in sintesi occorre introdurre innovazioni strutturali. Il problema è che dietro ad ogni struttura esistono gruppi di pressione che vedono a rischio il loro tradizionale potere e che pertanto sono pronti a tutto, anche a far carte false, pur di boicottare i cambiamenti, sia ex ante che ex post (es. "Jobs Act", Voucher, Uber, banche, ecc.). Pertanto un "Conciliatore" che cerchi la mediazione tra le parti in gioco non sembra possa innovare granché, mentre un "Rottamatore" che disintermedi o abbia uno sguardo più ampio sembra avere più successo. Però il Rottamatore di turno deve riuscire ad attuare l'innovazione rispettando comunque la parte che di volta in volta appare soccombente, perché comunque è costituita da cittadini come gli altri. Manifestare disprezzo per chi difende posizioni in obsolescenza è una spregevole meschineria che va a danno del Paese.

Certamente osserviamo che nei processi di innovazione strutturale vengano spesso ignorati i cittadini, le loro libere associazioni e le associazioni dei consumatori. Cosicché il dibattito resta all'interno di consolidati gruppi di potere, con il sospetto di soluzioni pro casta invece che pro cittadini. E questa è una spiacevole meschineria.