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lunedì 16 gennaio 2017

Renzi: le prossime mosse



Il fatto che recentemente due provvedimenti legislativi siano stati spostati dalla Camera al Senato era stato interpretato da alcuni organi di stampa come indicatore dell’intenzione dell’ex Premier di lasciare libero  il primo ramo del Parlamento per fargli approvare in tempi rapidissimi una legge elettorale simile a quella del Senato, al fine di  andare alle elezioni già in Aprile e consentire a Renzi di presentarsi nuovamente nel ruolo di Capo del Governo al G7 di Taormina in maggio.
Questa notizia mi era sembrata pura fantapolitica perché un tale disegno dovrebbe fare i conti non con uno, ma con più osti: la Corte Costituzionale che dovrà dal 24 gennaio discutere e decidere in merito all’ Italicum  e che certo non gradirebbe essere scavalcata, la minoranza del PD che, dopo l’esito referendario, non sarebbe necessariamente d’accordo con il Segretario del partito, lo stesso Presidente della Repubblica che non accetterebbe altre forzature su un tema così delicato ed infine e soprattutto gli elettori che non giudicherebbero positivamente un ulteriore saggio  di forzato protagonismo.
Inoltre una tale manovra avrebbe dimostrato  che , dopo aver sottovalutato i risultati delle elezioni amministrative dello scorso giugno in cui il PD era uscito fortemente ridimensionato,  Renzi  stava per ripetere l’errore dopo il risultato  referendario, che ha bocciato  le riforme costituzionali .  Mi sembrava davvero troppo.
E infatti, nell’intervista rilasciata ieri a Repubblica, Renzi ha smentito di voler accelerare i tempi  e ha affermato di cercare un confronto con le altre forze politiche puntando, in via preferenziale,  ad un impianto elettorale di tipo maggioritario. Questo orientamento , che appare di tipo tattico, dovrà tener conto di quanto acutamente osservato da  Antonio Polito sul Corriere  a commento dell’esito del referendum:  rifiutandosi  di entrare nella Terra Promessa da Renzi, gli elettori hanno forse scritto la parola fine sulla seconda Repubblica” che era fondata su quattro pilastri: 1) il leaderismo, cioè l’assunto, introdotto nella scena politica italiana da Berlusconi nel 1994,  per cui il Capo della coalizione vincente diventava automaticamente capo del governo; 2) il sistema maggioritario, condizione essenziale del leaderismo; 3 ) la presenza di due coalizioni , entrambe potenzialmente vincenti; 4) la Tv come leva principale del successo elettorale. Ma il sistema bipolare è stato spazzato via in occasione delle elezioni politiche del 2013, con l’ascesa del Movimento 5 Stelle al rango di prima forza politica del Paese; sorte analoga è toccata alla TV, che si è rivelata controproducente per i candidati sovraesposti , sia nelle predette elezioni, sia in occasione del referendum,ed è ormai soppiantata dai social media. Il sistema maggioritario non  sembra più una soluzione praticabile in un contesto tripolare e, di conseguenza, viene meno anche il leaderismo.
Ciò comporta, per Renzi, la necessità di riflettere a fondo sul suo ruolo e sul rapporto con il PD, che non può essere più da lui visto come una semplice macchina elettorale al servizio del leader, ma come un sistema complesso, capace di ritrovare i collegamenti con la società  civile e di capirne le priorità, di presentare proposte non di facciata ma di sostanza per affrontare i problemi principali (dal rilancio produttivo,  al lavoro, all’immigrazione, ecc.). Sistema che può funzionare solo ristabilendo un confronto dialettico ma costruttivo con l’opposizione interna. Ora che il modello “tutti al servizio di uno” è superato, occorre ritrovare e rivitalizzare alcuni dei valori della tradizione democratica che avevano consentito , in passato, un forte radicamento sociale del partito. Una ritrovata sintonia interna consentirebbe al PD un utile confronto con le altre forze politiche, che il Capo dello Stato ha indicato come condizione necessaria per una riforma elettorale adeguata e condivisa.
Tutto ciò richiede tempo, un approccio moderato, basato sull’ascolto e su una buona dose di umiltà,  per  creare una discontinuità rispetto al precedente che si è dimostrato perdente, come lo stesso Renzi ha riconosciuto dicendo dopo il referendum  non abbiamo perso, ma straperso”.  Il fatto che, da allora  l’ex Premier abbia mantenuto un profilo basso  è un primo indicatore che forse la lezione ricevuta è servita.
Proseguire su questa strada senza forzare le tappe è condizione inderogabile per recuperare credibilità e presentarsi al prossimo appuntamento elettorale in termini competitivi.  La sconfitta referendaria deve essere opportunamente metabolizzata ed essere occasione per  una  seria autocritica, prima di andare alle urne.


lunedì 2 gennaio 2017

La lezione dei referendum



Sia Cameron nel Regno Unito  che Renzi in Italia  hanno appreso, a loro spese, quanto sia rischioso per chi detiene il potere giocarselo  con un referendum mirato ad ottenere un plebiscito: quando la società è pervasa da un profondo malessere, il risultato può diventare un incubo per chi avvia questo processo dall’alto. Come detto nel precedente post, il referendum è lo strumento più tipico della sovranità popolare e il suo avvio deve venire dal basso, cioè dalla società civile. Ciò non impedisce però ai partiti  di  tentarne una strumentalizzazione ed una  distorsione, come è avvenuto  spesso nel nostro Paese.
Ben diversa è la situazione in Svizzera, che vanta molti secoli di vera democrazia, nella quale la sovranità popolare è sempre prevalente rispetto alle decisioni degli organismi rappresentativi e costituisce il principale collante di una realtà statuale  molto diversificata.
La descrizione, che segue,  di queste esperienze nazionali evidenzia quanto ampio sia il divario democratico  fra i due contesti e quanto la Confederazione elvetica abbia da insegnare agli altri Paesi occidentali che, in misura maggiore o minore, vedono  invece una netta prevalenza degli organismi rappresentativi , i quali  peraltro  sono in crisi perché non riescono più a cogliere e governare le esigenze della società.

Italia

La nostra Costituzione, approvata nel 1948, prevede  all’art. 75 il referendum abrogativo che richiede, per essere valido, un quorum pari alla maggioranza degli aventi diritto al voto. Esiste anche il referendum confermativo, per le  revisioni costituzionali, che non richiede quorum.
Dopo le prime esperienze (sul divorzio e sull’aborto) che hanno visto una larga partecipazione popolare, questo istituto è decaduto per l’abuso che ne è stato fatto e che ha prodotto una profonda disaffezione. Dal 97 ad oggi ben 23 dei 29 referendum presentati sono decaduti per mancanza di quorum. Inoltre alcuni referendum, passati con larga maggioranza ( ad es. quello sull’abolizione del finanziamento ai partiti) sono stati aggirati dal Parlamento  e per altri (ad esempio quello sulle centrali nucleari) l’aggiramento è stato tentato più volte ed è sempre incombente. Le forze politiche hanno dimostrato, nelle situazioni predette, di avere  uno scarsissimo rispetto per la sovranità popolare.
Soltanto nel recente referendum costituzionale del 4/12/2016 si è avuta un’autentica impennata della partecipazione popolare, vicina al 70% , data l’importanza della posta in gioco e la consapevolezza che l’astensione sarebbe stata, non essendovi il quorum, controproducente.
La Riforma Boschi, che tale referendum ha bocciato, conteneva due interessanti ma parziali innovazioni che andranno riprese, con opportune modifiche, in una futura revisione costituzionale: 

1        - l’abbassamento del quorum nei referendum abrogativi : con la richiesta di  almeno 800.000 cittadini (anziché i 500.000 del testo rimasto vigente)   il quorum sarebbe stato  pari alla maggioranza dei votanti alle precedenti elezioni politiche anziché alla maggioranza degli aventi diritto al voto. Ciò sarebbe  stato un passo nella giusta direzione,  ma va detto che  la vera esigenza è l’eliminazione totale del quorum che spesso impedisce, complice l’astensionismo spontaneo o manovrato dai partiti, di sapere qual è la volontà dei cittadini, limitando quindi l’esercizio della sovranità  popolare. L’assenza di quorum costringerebbe invece tutte le parti  politiche a uscire allo scoperto e ad argomentare pubblicamente le loro ragioni, come è stato fatto in occasione  dell’ultima consultazione referendaria che, essendo confermativa, non aveva quorum. Questa esperienza è la migliore dimostrazione della tesi qui sostenuta.

2        - il referendum propositivo e d’indirizzo, nonché altre forme di consultazione,  finalizzati a  sviluppare la partecipazione dei cittadini,  che avrebbe dovuto essere regolato con legge approvata da entrambe le Camere.

Questo è uno strumento essenziale per migliorare la qualità di una democrazia, come emergerà chiaramente dal luminoso esempio svizzero, nel quale questo istituto prende il nome di “iniziativa popolare”.

Svizzera

E’ il Paese che più di ogni altro vede il popolo direttamente e inconfutabilmente protagonista  assoluto della vita politica. La distanza dalla situazione italiana è siderale.
Al popolo spetta sempre l’ultima parola,  su qualunque legge o atto delle istituzioni rappresentative, e ciò ha portato talvolta ad accantonare iniziative  di grande portata sostenute  dal Governo  (il Consiglio federale) o dal Parlamento (l’Assemblea federale). Ne é  storico esempio  il pluridecennale rifiuto, tramite referendum,  di aderire all’ONU, superato solo nel 2002 e quello di aderire allo Spazio Economico Europeo ed alla stessa Unione Europea.
Ciò testimonia la fiera volontà del popolo di mantenere un’autonomia quanto più possibile ampia, pur senza rifiutare certi meccanismi d’integrazione nel contesto internazionale
La peculiarità della Svizzera è di essere una nazione caratterizzata da pluralità di culture, lingue e religioni,  che convivono pacificamente  senza volersi fondere, a differenza dal modello americano del “melting pot”. L’identità nazionale è largamente basata sull’indipendenza, di cui Guglielmo Tell è l’eroe simbolico, che il Paese ha sempre  felicemente difeso e goduto ( con una breve interruzione nel periodo napoleonico ) e sull’autogoverno : tutti i cittadini, indipendentemente dalle predette differenze, contribuiscono direttamente alle decisioni pubbliche.
In oltre 700 anni di  autentica democrazia  è stato affinato un sistema politico assolutamente originale, difficilmente imitabile nel suo insieme , ma  che può essere preso come  pietra di paragone  e  fonte d’ispirazione per capire davvero cosa vuol dire “sovranità popolare” e per far crescere la democrazia diretta in realtà molto arretrate come la nostra, dove il sistema rappresentativo fa il bello e il cattivo tempo e il popolo, abituato a lunghe dominazioni, abbozza.
Detto che le istituzioni svizzere si collocano a tre livelli: federale, cantonale e comunale, tutti i loro atti sono, obbligatoriamente o facoltativamente sottoponibili allo scrutinio popolare tramite referendum  confermativo.
Mentre la Costituzione italiana fa divieto, ad esempio, di sottoporre a referendum le leggi fiscali e di bilancio, tale limitazione risulterebbe  incomprensibile nel contesto svizzero dove l’istituzione di nuove tasse richiede sempre l’approvazione popolare e  dove  esiste una forte  concorrenza fiscale fra Cantoni  ed anche fra i Comuni  per cui l’imposta sul reddito varia in un rapporto di 1 a 4 fra un Cantone e l’altro  e da 1 a 2 fra Comuni dello stesso Cantone. Il che testimonia fra l’altro l’elevato livello di autonomia di cui  godono i livelli locali di governo, in una logica davvero federale.
Per rimarcare la differenza con la nostra realtà, va detto che in Svizzera non esiste la Corte Costituzionale perché è, in tale contesto,  inconcepibile e inaccettabile, da un punto di vista democratico, che un organo tecnico, per di più neppure eletto direttamente dai cittadini, possa sindacare la volontà del popolo, cui compete obbligatoriamente approvare con referendum ogni variazione costituzionale proposta dalle Istituzioni o dai cittadini. Ciò vale sia per la Costituzione federale che per quelle cantonali. Per quella federale votano, oltre ai cittadini anhe i Cantoni.
I referendum facoltativi riguardano le leggi e gli atti amministrativi cantonali.
Esiste in Svizzera anche l’importante istituto dell’ “iniziativa popolare” , che consente ai cittadini di fare una proposta di legge, che non viene sottoposta, come da noi,  al Parlamento ma direttamente al popolo, sempre tramite referendum. Il Parlamento si limita a certificare l’esistenza di alcuni requisiti di base: su 140 iniziative proposte solo 4 sono state escluse dal voto.
Va segnalato inoltre che, nelle realtà comunali del Paese, è tuttora vigente, dove le dimensioni lo consentono, l’istituto del ”Landsgemeinde”, cioè l’assemblea di tutti i cittadini aventi diritto di voto che decide, in piazza, delle questioni locali per alzata di mano. E’ una perfetta riproduzione dell’”Ecclesia” ateniese e testimonianza di una qualità democratica probabilmente unica. Laddove non è possibile usare tale istituto, i Comuni, salvo i maggiori, hanno comunque solo due livelli di governo: il popolo e l’esecutivo, eletto dal popolo. Non esiste quindi un organo intermedio rappresentativo come il  nostro Consiglio comunale.
Un cenno infine ad un’altra peculiarità delle democrazia svizzera, cioè la stabilità, garantita dal fatto che il governo dura in carica quattro anni e non può essere sfiduciato e che l’Assemblea federale non può essere sciolta prima della scadenza.
Il governo è formato da soli sette membri che rappresentano ,con due ministri ciascuno, i tre maggiori partiti e, con un ministro, il quarto. Le decisioni sono collegiali e il ruolo di Capo del Governo, che dura un anno, è ricoperto, a rotazione da ciascun ministro.
Il confronto fra Italia e Svizzera indica l’esistenza di un enorme spazio di miglioramento della nostra democrazia che dovrebbe passare attraverso l’aumento degli istituti di democrazia diretta per rendere il popolo sempre più protagonista del proprio destino.