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giovedì 16 febbraio 2017

I nodi sono venuti al pettine



La caduta verticale di credibilità dell’establishment  nei Paesi occidentali è frutto del combinato disposto di due fattori che, da oltre duecento anni, stanno minando le fondamenta dei loro sistemi politici, dando luogo a“forme” patologiche  che  li rendono incapaci di rispondere alle richieste dei cittadini e di affrontare le crescenti sfide sociali:

Il primo fattore è l’illusione che tali sistemi siano delle democrazie mentre è storicamente provato che essi sono stati concepiti per uno scopo esattamente opposto, cioè quello di dare il potere ad un’elite, evitando accuratamente di riconoscere la sovranità popolare. I nostri sistemi politici sono delle “oligarchie elettive  e  tale caratteristica, ormai  chiara a molti, è la causa principale dell’allontanamento dei popoli da chi li governa, del crescente assenteismo elettorale e, più di recente, delle scelte inattese fatte da vari popoli (inglese, statunitense e italiano) in recenti consultazioni politiche o referendarie.

Il secondo è la tendenza dei partiti a occupare lo Stato e a servirsene per i propri obiettivi.
Questa tendenza, che era tipica dei Paesi totalitari, è diventata usuale anche in quelli che si dicevano democratici ed ha assunto due varianti:

* la dissimulazione,  ben espressa  dalla seguente descrizione del filosofo Giuseppe Polistena: “ Nell’area europea, e segnatamente in quella italiana, il partito ha utilizzato abilmente una doppia sponda che gli ha consentito di mimetizzarsi abilmente; esso infatti ha occupato da un lato le istituzioni dello Stato, ma dall’altro si è pensato e raffigurato come una semplice e spontanea manifestazione della società civile o, come si dice sovente, come una bocciofila di Paese”.
Così facendo i partiti hanno ottenuto il risultato di avere “ la botte piena e la moglie ubriaca”, cioè il massimo accesso al potere e la massima libertà d’azione,  non essendo sottoposti ad alcun controllo.

* l’esplicitazione, tipica dei Paesi anglosassoni,  caratterizzati dalla logica dello “spoil system”, per cui il Partito vincente occupa tutti i posti di potere, non solo quelli politici, ma anche quelli amministrativi.
La differenza fra le due varianti è ovviamente riconducibilie ai diversi tratti culturali vigenti nelle realtà di riferimento.
Questa situazione patologica è potuta durare tanto a lungo perché i formidabili progressi della scienza e della tecnica, tipici frutti delle cultura occidentale, hanno garantito la crescita economica e, fino alla crisi iniziata nel  2008, un benessere diffuso che  ha “anestetizzato” i popoli.

Ma, essendosi dedicate le elite alla conquista e alla gestione del potere più che ad anticipare e risolvere i problemi, sono state recentemente spiazzate dall’ imprevista rivolta degli elettorati, che stanno cogliendo ogni occasione di voto per manifestare il proprio scontento contro una globalizzazione che ha certamente creato opportunità, ma ha prodotto divaricazioni crescenti e inaccettabili fra le classi sociali e un enorme spostamento di ricchezza verso l’oriente.
Bollare come “populismo” la rabbia crescente dei popoli e le forze che cercano, bene o male,  di tenerne conto è un’altra clamorosa manifestazione  di cecità politica, che dimostra l’incapacità delle elite autoreferenziali di svolgere il ruolo di  guida che ritengono di avere.

Il punto di fondo è che la democrazia rappresentativa  così com’è non funziona perché non è realmente democratica e va, quindi,  corretta in modo  da dare ai cittadini un’effettiva influenza sulla gestione della cosa pubblica, anche attraverso l’ampliamento degli strumenti di democrazia diretta.
Su questi temi  sta da tempo lavorando l’ associazione “Le Forme  della Politica”,  che ha recentemente  costituito una sezione internazionale denominata “Improving  Democracy”.
La sua attività iniziale è la proposta, fatta ai leader di alcuni importanti Paesi occidentali , di  una significativa integrazione dei sistemi della rappresentanza, di cui darò notizia nel prossimo post.




giovedì 2 febbraio 2017

L'Italia va cantando



Pubblico un'interessante riflessione di Giorgio Calderaro contenente tesi in parte diverse dalle mie, che possono stimolare un utile dibattito sulle prospettive del nostro Paese. Farò seguire un mio commento.

L’Italia va cantando
di Giorgio Calderaro
 
Finalmente, dopo il referendum del 4 dicembre, il clima politico è diventato più sereno: meno urla di denigrazione e più discussioni.
Anche il clima nella popolazione è diventato più sereno. Finalmente vengono piano piano ripristinati i diritti: gli insegnanti costretti all’emigrazione possono tornare a casa, i lavoratori schiavizzati dai voucher possono sperare nella loro abolizione e quindi nell’aumento dell’occupazione, i dirigenti pubblici possono aspettarsi la conferma della loro inamovibilità, i furbetti del cartellino potranno stare tranquilli, i dirigenti e gli obbligazionisti delle banche in crisi potranno contare sull’aiuto di stato, categorie sempre più ampie di persone potranno deliberare in merito alle proprie retribuzioni, … E se questo costa un po’ di debito in più, pazienza: tanto ora l’Europa, che prima “ce lo chiedeva”, ora “strilla un po’ ma ce lo permette”.
Siamo più tranquilli, possiamo proseguir cantando felici, come al festival di Sanremo.
La nostra ribellione sociale, come con Trump e con la Brexit, sta avendo successo. Certo negli USA è stato travolto tutto l’establishment, sia repubblicano che democratico mentre in UK è stato travolto solo il partito europeista e in questi due Stati l’intero scenario socioeconomico percorrerà strade ancora da esplorare; mentre da noi è stato travolto il partito riformista, con la restaurazione dello scenario politico nell’ambito di schemi noti e tradizionali.
Così come noti e tradizionali sono rimasti purtroppo i nostri problemi legati all’eccesso di debito pubblico, che impedisce di indirizzare ingenti investimenti pubblici alla crescita ed al lavoro per i giovani.
Inoltre purtroppo è cambiato il contesto economico in cui l’Italia è inserita: il prezzo dell’energia e il costo del denaro stanno salendo, con conseguente aggravio dei nostri già appesantiti conti pubblici, della solidità delle nostre banche, del potere di acquisto dei nostri redditi. E anche lo scenario economico mondiale, con la nuova triangolazione Trump – Putin – Xi rischia di evolversi in direzioni che ora non sappiamo.
Per affrontare la nuova situazione occorre formulare urgentemente un progetto politico, del cui dibattito però oggi non si vede traccia.
Il progetto politico però non può limitarsi a gestire le appariscenze negative, ma deve necessariamente toccare le cause modificabili dei fenomeni su cui si vuole agire.
Se vogliamo più lavoro, occorre necessariamente potenziare la base produttiva del paese adottando normative e incentivi attrattivi per nuove imprese e per l’allargamento di quelle esistenti. Inoltre si deve favorire, grazie a normative attrattive e ad incentivi, la nascita e lo sviluppo delle attività di tipo artigianale o addirittura domestico esaltate dalla sharing economy. Così, con incentivi, la base produttiva di reddito si allarga, con beneficio per tutti. Se vogliamo lavoro, non ci serve l’articolo 18, ci servono più imprese!
Evidentemente le norme, per generare attrattività, debbono essere semplici, senza cavilli e necessitano di una burocrazia poco costosa, rapida, trasparente e non ostile; necessitano di un sistema giudiziario efficiente e ragionevolmente veloce; necessitano di un sistema scolastico di qualità efficace e rapido; necessitano che chi crea danni alla collettività o alle sue imprese non venga premiato, necessitano che le collusioni tra finanza e politica vengano tagliate e che si lavori di più sulla trasparenza e contro la corruzione, necessitano che si diffondano a tutto il Paese comportamenti che premino le capacità di chi sa generare risultati utili per la comunità: a dispetto di tutti i potentati che invece godono di privilegi ormai fuori tempo.
Eh già, ma tutto questo presuppone un Paese proiettato al suo futuro e che vuole cambiare, e questo non è il Paese uscito dal referendum.
Forse, se le elezioni non fossero proprio dietro l’angolo, ci sarebbe il tempo perché tutto il Paese rifletta a fondo sul progetto politico e sul progetto industriale da sviluppare fino a identificarne uno più condiviso del precedente.