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sabato 25 giugno 2011

Il fiuto di Di Pietro

Molti osservatori politici si sono stupiti dell'improvviso cambiamento di atteggiamento del leader dell'IDV dopo le  due recenti consultazioni elettorali.

Di Pietro, che si è sempre distinto per un'opposizione aggressiva, ha assunto un tono "istituzionale"  e moderato, richiamandosi alla responsabilità che compete a chi ha vinto  queste consultazioni, nei confronti di quella larga parte dell'elettorato che ha votato in linea con le indicazioni dei partiti della sinistra, pur non appartenendo a questa area politica.
Ancora una volta Di Pietro ha dimostrato di  avere un notevole intuito politico che gli consente di anticipare le mosse di altri leader: è stato il primo a sviluppare un'opposizione radicale al centrodestra, dopo che la sinistra estrema era stata espulsa dal Parlamento nel 2008, il  che gli ha permesso di costruire una forza politica di rilievo, è stato il promotore di due dei tre referendum sui quali si è recentemente votato e la sua scelta è stata vincente ed ora ha colto il senso profondo del  cambiamento che è partito con le recenti elezioni amministrative ( di cui ho trattato nel post "La rivoluzione di maggio") e che si è rafforzato con la tornata referendaria: una gran parte degli elettori moderati non si sente più rappresentata dall'attuale centro destra, che non ha saputo mantenere le promesse di rinnovamento antiburocratico e di sviluppo economico su cui si era fondato il suo successo elettorale,  e che è impantanato nello sforzo ossessivo di evitare i processi a Berlusconi, in costanti liti interne e in proposte stravaganti come quella di portare i ministeri al nord che, oltre a essere impraticabile, fa a pugni con il concetto di unità nazionale, cui gli italiani hanno mostrato di tener molto, e di un corretto federalismo.
Esiste, quindi, un'ampia fetta dell'elettorato moderato pronta ad esercitare una forte mobilità del proprio voto al fine di costringere le forze politiche a rompere gli attuali, vetusti, assetti  e dar vita a coalizioni diverse, in termini valoriali, ma capaci di rappresentare non solo interessi di parte ma anche interessi nazionali condivisi.
Gli italiani hanno un forte bisogno di qualcuno che sappia interpretare le esigenze comuni, sia in politica interna che internazionale, e che - ciò facendo - sappia ridare slancio al nostro Paese, che sta scivolando in una china di debole sviluppo e decrescente competitività.
Al momento l'unica figura che ha dimostrato questa capacità è il Presidente delle Repubblica, la cui popolarità ha, infatti, raggiunto livelli altissimi. Ma , per quanto il potere del Presidente si sia notevolmente ampliato a causa dell'insipienza dei partiti, vi sono dei limiti chiari alla sua possibilità di supplenza.
E' in questo vuoto che sta cercando d'inserirsi Di Pietro, al quale ormai l'etichetta "di sinistra" va molto stretta, dando vita ad un IDV 2, che sappia coniugare  esigenze diverse ma complemetari: lo slogan da lui formulato "solidarietà e legalità" è indicativo al riguardo.
Nell'intervista a "La Stampa" del 24 giugno , alla domanda" si propone di pescare anche nell'elettorato dell'UDC e in quello sinora potenziale di Fini?", Di Pietro ha risposto " Io non voglio morire d'inedia in attesa che il Terzo polo decida che fare. Nel sistema bipolare gli elettori liberaldemocratici che non vogliono buttare il proprio voto, se votano centrosinistra sanno di trovare nell'IDV un riferimento ben strutturato".

Se l'operazione riesce, l'IDV è destinato a superare la Lega e a diventare il terzo partito italiano.

venerdì 17 giugno 2011

Referendum: vinta una battaglia,non la guerra

Il dato politico più saliente delle elezioni amministrative, come ho scritto nel mio post precedente, è stato la conquistata "libertà di alternanza", in base alla quale un'importante quota di elettori moderati ha tranquillamente votato per candidati della sinistra anche estrema, pur di cambiare una situazione politica nazionale e locale ritenuta insoddisfacente.
L'aspetto più significativo dei referendum è stato il "ritiro della delega", cioè il riappropriarsi da parte del popolo sovrano della facoltà di decidere direttamente su questioni di grande rilevanza.
Questi due orientamenti sono complementari. Il primo si colloca all'interno del sistema di rappresentanza ed è quindi da vedere come uno stimolo ai partiti a non dare per scontato l'appoggio dei propri elettori ( è emblematico, al riguardo, il  chiaro messaggio di insoddisfazione inviato alla Lega dall'elettorato del Nord , considerato come un suo bacino privilegiato di voti, in occasione delle amministrative ). Il secondo costituisce l'"ultima ratio": se i partiti non ascoltano i cittadini, questi ultimi possono riprendersi il diritto di decidere, togliendo di fatto ai partiti la rappresentanza a loro concessa.
Il forte superamento del quorum, dopo 16 anni di tentativi infruttuosi , e il trionfo dei "sì" testimoniano la forte volontà di cambiamento dell'elettorato e sanciscono la rivitalizzazione di questo importante strumento di democrazia diretta.

Come è stato ampiamente osservato, il ruolo giocato dalle reti sociali via internet e dai giovani, che ne sono i principali protagonisti, è stato determinante per il successo dei referendum. Ciò comporta un mutamento assai rilevante nel rapporto fra elettori e sistema politico perchè sancisce il sostanziale ridimensionamento dei  tradizionali canali di creazione del consenso (giornali, TV, radio, ecc.) e degli stessi partiti come attori della rilevazione, interpretazione e aggregazione della domanda politica. I partiti di governo sono stati "bypassati" dalla Rete.

E' comprensibile l'entusiasmo della maggioranza degli italiani, che si sono recati a votare, malgrado i tentativi di dissuaderli, ed hanno detto sì, per i risultati raggiunti. Tuttavia c'è il rischio che si dia per scontata la soluzione definitiva del problema, come fa - ad esempio - Massimo Nava nel bell'articolo "Un asse antinucleare italo-tedesco può cambiare gli scenari europei" (Corriere della Sera, 15 giugno 2011). Scrive Nava:  " Ammesso che il ritorno al nucleare fosse una strada praticabile rispetto a costi, tempi e rischi, la grande maggioranza degli italiani ha definitivamente escluso ( e per la seconda volta in un quarto di secolo) questa possibilità.". Io penso invece che proprio il fatto di aver dovuto tornare due volte sul tema escluda il "definitivamente". Il fatto è che, sul nucleare agiscono alcune delle più potenti lobby economiche del pianeta e che l'argomentazione da loro usata, anni dopo il referendum del 1987, per riproporre, tramite i politici, un piano nucleare nel nostro Paese  ("si è trattato di una decisione emotiva presa dopo il disastro di Chernobyl") verrà riproposta tal quale, con riferimento al disastro di Fukushima, se non si farà qualcosa di veramente definitivo. A questo riguardo sposo totalmente la proposta fatta da Nava nel predetto articolo, cioè che l'Italia, finalmente orgogliosa di essere il primo grande Paese denuclearizzato, si ponga - insieme alla Germania che si prepara ad esserlo - alla testa di un movimento che induca anche gli altri Paesi, anzitutto europei, ad abbandonare l'atomo. Ma questo compito non può essere delegato totalmente ai politici visto che essi, per un motivo o per l'altro, sono sensibili alle sirene delle lobby.
In merito alla questione si è espresso anche Beppe Grillo nell'intervento all'ultima puntata di Annozero, dicendo che, dopo la vittoria nel referendum , "ora dobbiamo occuparci della Francia", che è la nazione con il maggior numero di centrali nucleari nel mondo. Non vi è dubbio che se il movimento della Rete si farà carico di una tale azione transnazionale, vi sarà una forte possibilità di incidere sulle scelte politiche, visti i risultati ottenuti nel caso italiano.
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Se la vigilanza dei cittadini è necessaria per il nucleare, lo è molto di più per quanto riguarda l'acqua che è considerata, dagli analisti finanziari, il "petrolio del futuro" ( ovviamente non come potenziale carburante, ma quale fonte di business). E' straordinario come, per mettere le mani su questo affare, si sia distorta la realtà, cercando di far credere che privatizzare la gestione dell'acqua fosse una moderna  forma di liberalizzazione, mentre invece sarebbe solo un modo per regalare ai privati un grosso affare, per di più con garanzia statale di un utile minimo del 7%! Questo non è lo sbandierato sano capitalismo capace di fare gli investimenti che il Pubblico non sarebbe in grado di assicurare, ma una forma di veterocapitalismo assistito dallo Stato, di cui tanti esempi abbiamo avuto in Italia. Fortunatamente gli italiani non hanno abboccato.
Se sul nucleare le lobby per qualche tempo staranno tranquille, è certo che sull'acqua torneranno presto alla carica. E' emblematico, al riguardo, quanto ha dichiarato Quagliarello del PDL in un'intervista al Corriere della Sera del 14 giugno rispondendo ad un quesito sul tema: "Qui, in effetti, c'è stata un'inversione del senso comune in senso anticapitalistico, una sorta di prevenzione nei confronti del mercato. Il rischio è che rinascano i servizi pubblici locali secondo vecchie logiche che faticosamente si era cercato di superare. Il centrodestra prenda atto della volontà popolare, ma senza abdicare alla volontà di affermare un proprio senso comune alternativo " (grassetto mio). Come si vede, le intenzioni sono chiare.
Spiace che su questa lunghezza d'onda si inserisca anche  un opinionista di qualità come Angelo Panebianco che, nell'editoriale del Corriere del 15 giugno, rilancia il tema scrivendo che "  il problema di Bersani, nei prossimi mesi, passata l'euforia, sarà quello di trovare un equilibrio che gli consenta di smarcarsi dalla trappola massimalista in cui, proprio sulla questione dell'acqua, lo hanno spinto Vendola e Di Pietro. Il suo problema sarà quello di recuperare un profilo riformista che, oltre tutto, è più coerente con la sua storia personale. E' certo che il Paese  ha bisogno di privatizzazioni e anche di capitali privati nei servizi pubblici" (grassetto mio).
Anch'io sono convinto che il Paese abbia bisogno di privatizzazioni, ma non in casi come quello dell'acqua che è un monopolio naturale: mentre si possono far passare i treni di diverse aziende sule stesse rotaie, è impossibile far passare acque diverse negli stessi tubi. L'impossibilità di concorrenza toglie senso alla presenza dei privati, che diventerebbero monopolisti a spese dei cittadini.

Per chi ritiene l'acqua un bene comune, la guerra è appena iniziata.

giovedì 9 giugno 2011

La rivoluzione di maggio

Le elezioni amministrative del maggio 2011 hanno un significato rivoluzionario perchè segnano il definitivo passaggio dal voto fondato su una "appartenenza ideologica" a quello basato su una "scelta pragmatica", in ciò avvicinando fortemente i comportamenti elettorali degli italiani a quelli presenti nelle democrazie più mature.
Segnali in questo senso si erano già avuti in precedenti tornate elettorali, ma ciò che caratterizza fortemente le recenti amministrative è il fatto che gli elettori, nel loro complesso, hanno superato nettamente i tradizionali confini fra destra, centro e sinistra, esprimendo una scelta capace di "mescolare le carte" e imporre sia alla coalizione di governo, sia alle opposizioni di ripensare drasticamente e in termini innovativi la loro configurazione e i loro assetti.
La netta sconfitta della coalizione di governo è un forte segnale della necessità di superare la politica urlata, centrata sui problemi del premier, sulla delegittimazione delle istituzioni ( Presidenza della Repubblica, Corte Costituzionale, Magistratura) e sul forte centralismo, per guardare alle esigenze di sviluppo del Paese e delle città in gioco,in un contesto di civile confronto e di ripristino dell'etica pubblica. Gli elettori hanno detto alla maggioranza di non volere un governo "schiavo di Berlusconi", nè un cambiamento degli equilibri istituzionali tale da favorire il formarsi di una "repubblica padronale". In quest'ottica la sfida centrale per il Popolo delle libertà è l'introduzione, all'interno del partito, di quelle elementari libertà politiche che in esso non sono mai esistite: diritto al dissenso anche nei confronti del leader, strumenti per attivare un'esplicita dialettica interna, come i congressi (che non sono mai stati fatti), modalità non verticistiche di scelta dei candidati. Per quanto riguarda la Lega, il messaggio degli elettori è stato di non appiattirsi sulle scelte del premier e di non pensare a "vivere di rendita": la mobilità ormai acclarata degli elettori non garantisce più rendite a nessuno.
Qualche iniziale segnale di cambiamento è cominciato ad emergere nel Popolo delle Libertà: la nomina di Alfano a Segretario politico (carica inesistente in precedenza), il dibattito sulle primarie, l'iniziativa di Ferrara per discutere della democrazia interna. Si tratta di vedere quali frutti concreti verranno da questi primi passi. E' importante, inoltre, che il premier, dopo aver consumato la sua vendetta su Santoro ( da lui accusato, esagerando molto, di avergli fatto perdere le elezioni) smetta una volta per tutte di prendersela con i "comunisti", le "toghe rosse", il "complotto mediatico" e di evocare improbabili "zingaropoli": sono argomentazioni rozze e infondate che gli italiani, anche i moderati, non intendono più sentire.

Sul fronte dell'opposizione, va detto che la legittima soddisfazione per i risultati elettorali non deve distorcere il significato degli stessi: nei due casi più emblematici ( Milano e Napoli ) hanno vinto due candidati formalmente espressione di forze di estrema sinistra, ma la loro affermazione è stata resa possibile dal sostanziale contributo di una significativa parte dell'elettorato di centro e anche di destra. A ciò facevo riferimento in precedenza quando accennavo all'intenzione degli elettori di "mescolare le carte", Di ciò devono tener conto non solo i sindaci neoletti, ma anche le forze politiche nazionali nel riflettere sui programmi e sulle alleanze future. I primi sembrano muoversi bene: entrambi cercano di svincolarsi dall'abbraccio dei partiti di riferimento nel fare le loro scelte sulla formazione delle giunte (si veda, ad esempio, la probabile nomina del centrista Tabacci di Alleanza per 'Italia quale assessore al bilancio di Milano). Le seconde intravedono, dopo molti anni di "blackout" la concreta possibilità di costruire un'alleanza di governo, ma sembrano ancora abbastanza condizionate dal tradizionale dibattito sulle "formule di coalizione". il punto è che, molto probabilmente, la vittoria alle prossime elezioni politiche andrà alle forze che presenteranno il programma più solido e credibile e non sarà più baata sul fatto che si tratti di una coalizione di centrodestra o di centrosinistra. Gli elettori hanno ormai conquistato la loro libertà di alternanza e non guarderanno tanto alle etichette quanto ai contenuti.
Da qusto punto di vista sarà opportuno che Bersani, avendo particolarmente insistito in campagna elettorale sulla necessità di uscire dal dibattito sul premier per centrarsi sui problemi del Paese, inizi a confrontarsi con i leader delle altre forze di opposizione, senza steccati precostituiti, su un possibile programma di governo che sappia parlare all'intero Paese e non solo a specifiche appartenenze politiche.