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venerdì 17 giugno 2011

Referendum: vinta una battaglia,non la guerra

Il dato politico più saliente delle elezioni amministrative, come ho scritto nel mio post precedente, è stato la conquistata "libertà di alternanza", in base alla quale un'importante quota di elettori moderati ha tranquillamente votato per candidati della sinistra anche estrema, pur di cambiare una situazione politica nazionale e locale ritenuta insoddisfacente.
L'aspetto più significativo dei referendum è stato il "ritiro della delega", cioè il riappropriarsi da parte del popolo sovrano della facoltà di decidere direttamente su questioni di grande rilevanza.
Questi due orientamenti sono complementari. Il primo si colloca all'interno del sistema di rappresentanza ed è quindi da vedere come uno stimolo ai partiti a non dare per scontato l'appoggio dei propri elettori ( è emblematico, al riguardo, il  chiaro messaggio di insoddisfazione inviato alla Lega dall'elettorato del Nord , considerato come un suo bacino privilegiato di voti, in occasione delle amministrative ). Il secondo costituisce l'"ultima ratio": se i partiti non ascoltano i cittadini, questi ultimi possono riprendersi il diritto di decidere, togliendo di fatto ai partiti la rappresentanza a loro concessa.
Il forte superamento del quorum, dopo 16 anni di tentativi infruttuosi , e il trionfo dei "sì" testimoniano la forte volontà di cambiamento dell'elettorato e sanciscono la rivitalizzazione di questo importante strumento di democrazia diretta.

Come è stato ampiamente osservato, il ruolo giocato dalle reti sociali via internet e dai giovani, che ne sono i principali protagonisti, è stato determinante per il successo dei referendum. Ciò comporta un mutamento assai rilevante nel rapporto fra elettori e sistema politico perchè sancisce il sostanziale ridimensionamento dei  tradizionali canali di creazione del consenso (giornali, TV, radio, ecc.) e degli stessi partiti come attori della rilevazione, interpretazione e aggregazione della domanda politica. I partiti di governo sono stati "bypassati" dalla Rete.

E' comprensibile l'entusiasmo della maggioranza degli italiani, che si sono recati a votare, malgrado i tentativi di dissuaderli, ed hanno detto sì, per i risultati raggiunti. Tuttavia c'è il rischio che si dia per scontata la soluzione definitiva del problema, come fa - ad esempio - Massimo Nava nel bell'articolo "Un asse antinucleare italo-tedesco può cambiare gli scenari europei" (Corriere della Sera, 15 giugno 2011). Scrive Nava:  " Ammesso che il ritorno al nucleare fosse una strada praticabile rispetto a costi, tempi e rischi, la grande maggioranza degli italiani ha definitivamente escluso ( e per la seconda volta in un quarto di secolo) questa possibilità.". Io penso invece che proprio il fatto di aver dovuto tornare due volte sul tema escluda il "definitivamente". Il fatto è che, sul nucleare agiscono alcune delle più potenti lobby economiche del pianeta e che l'argomentazione da loro usata, anni dopo il referendum del 1987, per riproporre, tramite i politici, un piano nucleare nel nostro Paese  ("si è trattato di una decisione emotiva presa dopo il disastro di Chernobyl") verrà riproposta tal quale, con riferimento al disastro di Fukushima, se non si farà qualcosa di veramente definitivo. A questo riguardo sposo totalmente la proposta fatta da Nava nel predetto articolo, cioè che l'Italia, finalmente orgogliosa di essere il primo grande Paese denuclearizzato, si ponga - insieme alla Germania che si prepara ad esserlo - alla testa di un movimento che induca anche gli altri Paesi, anzitutto europei, ad abbandonare l'atomo. Ma questo compito non può essere delegato totalmente ai politici visto che essi, per un motivo o per l'altro, sono sensibili alle sirene delle lobby.
In merito alla questione si è espresso anche Beppe Grillo nell'intervento all'ultima puntata di Annozero, dicendo che, dopo la vittoria nel referendum , "ora dobbiamo occuparci della Francia", che è la nazione con il maggior numero di centrali nucleari nel mondo. Non vi è dubbio che se il movimento della Rete si farà carico di una tale azione transnazionale, vi sarà una forte possibilità di incidere sulle scelte politiche, visti i risultati ottenuti nel caso italiano.
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Se la vigilanza dei cittadini è necessaria per il nucleare, lo è molto di più per quanto riguarda l'acqua che è considerata, dagli analisti finanziari, il "petrolio del futuro" ( ovviamente non come potenziale carburante, ma quale fonte di business). E' straordinario come, per mettere le mani su questo affare, si sia distorta la realtà, cercando di far credere che privatizzare la gestione dell'acqua fosse una moderna  forma di liberalizzazione, mentre invece sarebbe solo un modo per regalare ai privati un grosso affare, per di più con garanzia statale di un utile minimo del 7%! Questo non è lo sbandierato sano capitalismo capace di fare gli investimenti che il Pubblico non sarebbe in grado di assicurare, ma una forma di veterocapitalismo assistito dallo Stato, di cui tanti esempi abbiamo avuto in Italia. Fortunatamente gli italiani non hanno abboccato.
Se sul nucleare le lobby per qualche tempo staranno tranquille, è certo che sull'acqua torneranno presto alla carica. E' emblematico, al riguardo, quanto ha dichiarato Quagliarello del PDL in un'intervista al Corriere della Sera del 14 giugno rispondendo ad un quesito sul tema: "Qui, in effetti, c'è stata un'inversione del senso comune in senso anticapitalistico, una sorta di prevenzione nei confronti del mercato. Il rischio è che rinascano i servizi pubblici locali secondo vecchie logiche che faticosamente si era cercato di superare. Il centrodestra prenda atto della volontà popolare, ma senza abdicare alla volontà di affermare un proprio senso comune alternativo " (grassetto mio). Come si vede, le intenzioni sono chiare.
Spiace che su questa lunghezza d'onda si inserisca anche  un opinionista di qualità come Angelo Panebianco che, nell'editoriale del Corriere del 15 giugno, rilancia il tema scrivendo che "  il problema di Bersani, nei prossimi mesi, passata l'euforia, sarà quello di trovare un equilibrio che gli consenta di smarcarsi dalla trappola massimalista in cui, proprio sulla questione dell'acqua, lo hanno spinto Vendola e Di Pietro. Il suo problema sarà quello di recuperare un profilo riformista che, oltre tutto, è più coerente con la sua storia personale. E' certo che il Paese  ha bisogno di privatizzazioni e anche di capitali privati nei servizi pubblici" (grassetto mio).
Anch'io sono convinto che il Paese abbia bisogno di privatizzazioni, ma non in casi come quello dell'acqua che è un monopolio naturale: mentre si possono far passare i treni di diverse aziende sule stesse rotaie, è impossibile far passare acque diverse negli stessi tubi. L'impossibilità di concorrenza toglie senso alla presenza dei privati, che diventerebbero monopolisti a spese dei cittadini.

Per chi ritiene l'acqua un bene comune, la guerra è appena iniziata.

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