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giovedì 28 novembre 2013

Come fermare l'abuso di potere: apriamo un dibattito



La cronaca degli ultimi giorni ha portato in evidenza tre personaggi  pubblici molto diversi  fra loro ma accomunati, sia pure in gradi e situazioni differenti, da comportamenti  non coerenti con il ruolo istituzionale ricoperto  e caratterizzati  da abuso di potere, mancato rispetto delle leggi, estrema disinvoltura nell’interpretazione dei propri obblighi di fronte ai cittadini. Procedo in ordine alfabetico:

-          Berlusconi, Leader del centrodestra, ha dimostrato di non voler in alcun modo accettare nè una sentenza passata in giudicato né la Legge Severino approvata dalla maggioranza di cui faceva parte il suo partito; inoltre in un  recente discorso fatto davanti ai suoi sostenitori ha affermato che il Presidente Napolitano deve dargli la grazia per iniziativa autonoma mentre lui non vuole chiederla perché ciò sarebbe poco dignitoso. In altre parole si ritiene, come i monarchi del passato, “legibus solutus”.

-          Cota, Governatore del Piemonte, ha ottenuto come gran parte dei consiglieri regionali del Piemonte rimborsi  per spese chiaramente personali , non istituzionali, e a volte fatte nello stesso giorno in località assai distanti fra loro  e incompatibili con la sua ubicazione, tracciata dalle celle telefoniche. La giustificazione data, assolutamente inconsistente, è che la segretaria non ha tolto dal mazzo le spese inappropriate.

-          De Luca, Sindaco di Salerno e sottosegretario al Ministero delle Infrastrutture e Trasporti, non solo si rifiuta ostinatamente di rinunciare ad uno dei due incarichi, come prescrive la legge, ma del suo Ministro, che lo invita a fare una scelta, dice “ah, quell’imbecille”.

Il punto, a fronte di questi episodi, non è indignarsi, il che è pure legittimo, ma domandarsi: cosa possiamo fare noi come cittadini per porre fine all’andazzo per cui  politici di rango più o meno alto credono di potersi fare beffe della legalità e di non dover rendere conto di quanto fanno.
E’ evidente che l’arma del voto è insufficiente  visto che il ricambio della dirigenza politica dopo lo scossone di Tangentopoli non ha migliorato le cose, anzi. Non solo la corruzione è aumentata ma è aumentata anche la strafottenza con cui molti politici sfidano l’opinione pubblica e persino il ridicolo. Anche il pur positivo ricambio generazionale che si sta realizzando sia nel centrodestra che nel centrosinistra  non è chiaramente una soluzione, dato che la giovane età non è garanzia né di onestà né di rispetto istituzionale.
Indubbiamente la presente legge elettorale, che ha tolto ai cittadini la possibilità d’influire su chi verrà eletto con i loro voti ha pesato molto, ma ancor più pesa una cultura diffusa molto incline all’invettiva e molto poco al controllo di ciò che si fa nelle stanze del potere.
La speranza di una palingenesi ottenuta “mandando tutti a casa” come proposto da una forza politica è chiaramente infondata. Chi ci dice che i nuovi sarebbero meglio di quelli che sostituiscono? Se non si cambiano i meccanismi di raccordo fra la società civile e quella politica non si verrà mai a capo del problema.
Mi piacerebbe che i lettori del blog esprimessero la loro opinione, non dicendo, come spesso accade a chi interviene nei blog, “è tutto sbagliato, è tutto da rifare”, che lascia il tempo che trova, ma facendo proposte concrete di azioni, anche piccole, che possano far sentire ai politici che vengono effettivamente controllati e non solo biasimati.

venerdì 22 novembre 2013

Letta & Alfano: ora ci vuole coraggio



Qualche osservatore della scena politica ritiene che dietro la scissione del PDL ci sia un “gioco delle parti” mirante ad ampliare il bacino di consensi del centro-destra attraverso offerte politiche differenziate, filo o anti-governative, da compattare poi in una ampia coalizione in vista delle prossime elezioni: il banco di prova potrebbero essere le elezioni europee, che sono un territorio più neutrale, ma l’obiettivo vero sarebbero le politiche che, è ormai chiaro, non si terranno prima della fine del 2014. Ciò consentirebbe al partito di  Alfano di accreditarsi come ala moderata del centrodestra e a Forza Italia di consolidarsi come forza più radicale e populista. Queste differenze, cui si aggiungono quelle di Fratelli d’Italia e della nuova Alleanza Nazionale di Storace, sarebbero il lievito che dovrebbe far recuperare al centrodestra i quasi sei milioni di voti persi nell’ultima tornata elettorale.
Non nascondo che questa prospettiva ha una sua logica ed anche qualche probabilità di successo, ma mi sembra più dettata dal desiderio di Berlusconi di restare al centro della scena, in attesa di risolvere le sue pendenze con la giustizia, che dalle effettive intenzioni del Nuovo Centro Destra.
In realtà credo che la partita sia tutta da vedere perché sia Letta che Alfano si giocano, nella parte restante della legislatura, le loro prospettive migliori:  Letta, la possibilità di proseguire nel ruolo di Premier oppure quella di un lancio ad alto livello sulla scena internazionale, per la quale sarebbe adattissimo, qualora Renzi . dopo la probabile netta vittoria per il ruolo di Segretario del PD, gli precludesse la possibilità di proseguire nel ruolo attuale dopo il 2014; Alfano quella di diventare l’autore di un centrodestra di stampo europeo che possa mirare, in prospettiva, ad essere il fulcro di una coalizione di centro-destra. Il loro rapporto è di ferro e può condurli all’obiettivo solo se sarà in grado di fare ciò che il debole governo di larghe intese non ha saputo, ne’ potuto fare: poche scelte precise che diano il segno di un vero “cambio di passo” che gli italiani aspettano e che è fatto di tre cose: 1) un taglio netto dei privilegi, del numero di eletti e dei costi della politica 2) una riduzione marcata e non lineare della spesa improduttiva della Pubblica Amministrazione, dedicando i risparmi alla riduzione delle tasse, soprattutto sul lavoro  3) una legge elettorale che superi il porcellum ma non ricrei un proporzionalismo puro.
E’ vero ,come ha detto Quagliarello, che il tema della riforma elettorale è competenza del Parlamento, ma se il Governo non riesce a indirizzare le scelte in modo che il giorno dopo le elezioni si sappia chi ha vinto, pagherà un pesantissimo scotto.
Un primo segno positivo comunque c’è: il piano per la spending review presentato dal Commissario Cottarelli che ha un’ineccepibile impostazione metodologica in quanto prevede: una forte selettività degli interventi, la loro distribuzione su tutte le tipologie di spesa, la partecipazione in primo piano degli Organi della PA al processo di analisi delle spese, la valutazione finale del Commissario sulla congruità  e appropriatezza dei tagli previsti: una revisione "con" e non "contro" la PA.

Per quanto a Renzi si attribuisca il disegno di far cadere il governo per l’ambizione di fare presto il Premier, io resto dell’avviso, già espresso nel post “Letta e Renzi: una coppia vincente” del 22/9/2013 che Renzi non abbia la convenienza di attentare alla stabilità del quadro politico almeno fino alla fine del semestre italiano di Presidenza della Unione Europea. Certamente vorrà imprimere una forte accelerazione all’azione di Governo e qui si vedrà di quale pasta sono fatti coloro che attualmente guidano la compagine governativa.

Lo stesso Letta, d’altronde, dopo il voto sulla fiducia del 2 ottobre, ha detto “non abbiamo più alibi”.

venerdì 15 novembre 2013

L'Italia si mobilita contro gli ecomostri



Rete dei Comitati per la Qualità Urbanistica

8 novembre 2013
La nostra associazione che da tempo si batte contro gli “ecomostri”  ( edifici altamente invasivi, spesso costruiti all’interno di cortili) a Milano e in Lombardia, si è già  collegata con il Coordinamento dei Comitati Milanesi (CCM) e con il laboratorio Carteinregola di Roma, entrambi attivi nella tutela della vivibilità urbana e del territorio,  e intende entrare in contatto con comitati, associazioni e amministrazioni pubbliche sull’intero territorio nazionale al fine di ottenere un giusto equilibrio fra due esigenze: la riduzione del consumo di suolo e il non superamento di un’appropriata densità urbanistica. A  questo fine si vogliono affrontare, in particolare,  due emergenze derivanti dal Decreto del fare, recentemente trasformato in legge dal Parlamento:
-          La possibilità, data alle regioni e alle province autonome di Trento e Bolzano di derogare, con proprie leggi, alla distanza minima di 10 metri fra edifici, che potrebbe produrre effetti devastanti sulla forma delle città e sulla qualità della vita dei cittadini.

-          La possibilità data a tutti i costruttori di fare ristrutturazioni edilizie a seguito di demolizione di edifici preesistenti, eliminando il vincolo di rispettare la “sagoma” degli stessi, che ha sempre costituito una fondamentale salvaguardia dell’equilibrio urbanistico delle città. A questo proposito così si è espresso l’Istituto Nazionale di Urbanistica (INU):

“Eliminando la parola ‘sagoma’ dal significato originario di Ristrutturazione Edilizia - affermano gli urbanisti - questa finirà per inglobare anche la demolizione e la ricostruzione di un edificio del tutto nuovo e, paradossalmente, anche a portare fuori terra i volumi che attualmente sono sotto terra”.
 
Qualora questo avvenisse, l’INU teme “un attentato alla storia edilizia dell’Italia, alle forme delle sue città e dei suoi paesi, alla sua cultura materiale e immateriale che tanto contraddistinguono il paesaggio urbano italiano e, in fin dei conti, anche allo stesso paesaggio territoriale”. Inoltre, secondo l’INU, si metterebbe immediatamente in crisi la pianificazione urbanistica vigente, con incalcolabili ricadute a catena nella gestione degli insediamenti.
 
L’INU ricorda che “da sempre la pianificazione urbanistica ricorre alla ristrutturazione edilizia come massimo intervento consentito quando ha bisogno di scongiurare la demolizione di immobili di interesse storico, architettonico o testimoniale, consentendo la demolizione e ricostruzione a parità di volume solo per edifici o tessuti insediativi privi di valori storici e ambientali.”
 
L’INU chiede a tutte le forze culturali, a quelle sociali e a quelle economiche di mobilitarsi per scongiurare una possibilità di trasformazione dagli
effetti incontrollabili per il paesaggio urbano italiano”.

Va detto che l’eliminazione del vincolo di sagoma è stato attivo per vari anni in Lombardia in base ad una legge regionale poi bocciata dalla corte  Costituzionale, che nel suo periodo di vigenza ha prodotto i devastanti effetti documentati da un servizio RAI  sugli ecomostri a Milano del maggio 2012, che trasmettiamo a parte.
Il Comune di Milano ha accolto le nostre istanze, finalizzate a impedire la proliferazione degli ecomostri nei cortili, inserendo opportunamente  nel suo PGT la seguente norma:
d. allinterno del Tessuto Urbano Consolidato (TUC), ledificazione in tutto o in
parte allinterno dei cortili dovra essere di altezza inferiore o pari (fatto salvo
il rispetto delle norme igienico-sanitarie e regolamentari esistenti) a quella
delledificio preesistente. I diritti edificatori potranno essere totalmente o
parzialmente trasferiti.

Ci proponiamo ora d’inviare ai Presidenti di tutte le Regioni e province autonome una lettera che denuncia la grave situazione ed invita ad astenersi da iniziative legislative e di altra natura che possano contribuire a danneggiare la vivibilità urbana. Invitiamo, inoltre, le amministrazioni  comunali a seguire l’esempio di Milano, prevedendo norme a tutela della qualità urbanistica e della civile convivenza.
Saremmo lieti di condividere con voi le nostre idee ed azioni e vi preghiamo di farci sapere se siete interessati ad un approfondimento della questione.
Ringraziandovi dell’attenzione, porgiamo cordiali saluti.
Per la Rete dei Comitati, Carteinregola e CCM
Il portavoce
Roberto Barabino


sabato 9 novembre 2013

Un'indispensabile riforma a costo zero

Il seguente articolo di Marco Sarti è stato pubblicato sul sito  Linkiesta del 1 novembre 2013 e riguarda la denuncia  fatta dal Sen. Pietro Ichino in Parlamento sulla frequente incomprensibilità delle leggi e sul potere che ne deriva alla "sottocasta" dei Dirigenti ministeriali.
Bisogna ridare a tutti i cittadini la possibilità di capire le norme che li governano. E' una riforma che non comporta oneri ma solo benefici, anche in termini di credibilità internazionale. 
Invitiamo il Governo e i Partiti - Movimenti  ad agire in tale direzione e a ristabilire il primato della politica sulla burocrazia. Noi stimoleremo l'attuazione di questa riforma e ne daremo conto ai lettori.

IL PARLAMENTO VOTA LEGGI CHE I SUOI MEMBRI NON CAPISCONO

 DOCUMENTI CRIPTICI, LINGUAGGIO PER POCHI INIZIATI: LE LEGGI SONO IN MANO AD ANONIMI DIRIGENTI DEI MINISTERI CHE NON NE RISPONDONO

L’intervento in Aula risale a qualche giorno fa, ma è tremendamente attuale. Si riferisce al decreto di razionalizzazione della pubblica amministrazione, ma potrebbe adattarsi alla maggior parte dei provvedimenti che passano tra Camera e Senato. E solleva un caso fin troppo evidente. Davvero i nostri parlamentari hanno piena consapevolezza di quello che votano?
È il 2 ottobre scorso, l’Aula di Palazzo Madama ha da poco confermato la fiducia al governo Letta. Nel primo pomeriggio inizia la discussione sul decreto 101. A prendere la parola è il senatore Pietro Ichino, non proprio uno sprovveduto. Il testo in esame, spiega ai colleghi senza troppi giri di parole, ha un «difetto grave di chiarezza». Anzi. «È un testo letteralmente illeggibile», conferma poco dopo tra lo stupore generale. E non si tratta di una mera questione tecnica. «Non è solo incomprensibile per i milioni e milioni di cittadini chiamati ad applicarlo, ma è illeggibile anche per gli addetti ai lavori, per gli esperti di diritto di lavoro e di diritto amministrativo». La questione sollevata è tutt’altro che banale. Il decreto «è illeggibile per noi stessi legislatori che lo stiamo discutendo».
Superato il primo imbarazzo, subentra la preoccupazione.Se neppure i nostri parlamentari hanno piena coscienza di quello che votano, chi decide le norme che regolano la nostra vita? «Ciò pone un problema politico di grande rilievo – continua Ichino in Aula – Se a comprendere il testo legislativo non è neppure lo stesso legislatore che lo approva, ma sono soltanto pochi sacerdoti dei sacri misteri, significa che, in realtà, il potere legislativo è esercitato da loro». Insomma, una casta nella casta. «Il problema è che quei sacerdoti dei sacri misteri non rispondono delle scelte di fronte al Paese».
I senatori del Movimento Cinque Stelle iniziano ad apprezzare l’intervento. Più tardi, raccontano alcuni di loro, andranno persino a congratularsi con il collega di Scelta Civica. Intanto Ichino prosegue il suo atto d’accusa. «Vi leggo solo un comma preso a caso. “Gli ordini e i collegi professionali sono esclusi dall’applicazione dell’articolo 2, comma 1, del decreto legge 6 luglio 2012, n.95, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n.135. Ai fini delle assunzioni, resta fermo, per i predetti enti, l’articolo 1, comma 505, penultimo periodo della legge 27 dicembre 2006, n.296». Silenzio. «Credo che in Aula, in questo momento, non ci sia una sola persona che sia in grado di dirci che cosa questo comma voglia dire». Probabilmente ha ragione. A questo punto il resoconto stenografico registra un sonoro applauso.
Il bello è che la criptica stesura dei nostri provvedimenti finisce per mettere in difficoltà anche le istituzioni straniere. Con conseguenze altrettanto gravi. Ichino solleva il caso dei funzionari dell’Unione europea che ormai «considerano inutile tradurre i nostri testi legislativi». Difficile dargli torto. “Perché, anche se tradotti, essi non sono in grado di capirne minimamente il significato». E dire che l’Italia è già stata avvertita. Con il Decalogue for Smart Regulation del 2009, ricorda il senatore montiano, l’Unione Europea ha ammonito il nostro Paese «a legiferare in modo immediatamente comprensibile per tutti coloro ai quali la norma è destinata». Sembra semplice buonsenso. «A mio avviso – prosegue Ichino – si tratta di un principio basilare della democrazia».
Eppure nel recente passato non mancano esempi positivi. Ichino cita lo Statuto dei lavoratori del 1970. Un testo che «in quaranta articoli definiva praticamente tutto il nuovo diritto del lavoro». Diffuso in milioni di copie, permise a tutti i cittadini di conoscere nel dettaglio «la disciplina della malattia, del licenziamento, del trasferimento o delle rappresentanze sindacali». Oggi cosa accadrebbe? «Ipotizziamo che venga distribuito in milioni di copie questo testo che siamo chiamati a esaminare, e chiediamoci quanti italiani, fra tre mesi, saranno in grado di dire che cosa esso contiene». Non è il caso di rispondere.

sabato 2 novembre 2013

Come rilanciare il Paese



Pubblico il Manifesto, di cui condivido intento e contenuti, predisposto da Symbola, Unioncamere e Fondazione Edison, firmato da numerosi esponenti del mondo imprenditoriale, accademico, politico  e sociale, e diffuso il 15 ottobre 2013


Manifesto
“Oltre la crisi”

L’Italia deve fare l’Italia

L’Italia è in crisi, una crisi profonda e drammatica. Ma non è un paese senza futuro. È molto popolare, in patria e all’estero, la tesi del nostro inarrestabile declino: che manca però del sostegno dei fatti, fa torto a chi lavora, fa danno al Paese e distoglie dai veri problemi da risolvere.
Nessuno lo nega, siamo zavorrati da guai che vengono da lontano, e che vanno ben oltre il debito pubblico: le diseguaglianze sociali, l’economia in nero, quella criminale, il ritardo del Sud, una burocrazia spesso persecutoria e inefficace. La crisi mondiale si è innestata su questi mali, incancrenendoli. Rimediare non sarà facile. Ma non è impossibile, se non ci lasciamo ipnotizzare dalla retorica dell’apocalisse.
Il giudizio negativo sull’Italia nasce da un clima di enorme, e pericolosa, confusione. È confusa l’opinione pubblica interna, trascinata in un cronico stato di pessimismo e frustrazione. C’è confusione tra gli addetti ai lavori, e tra gli osservatori e gli investitori stranieri, inclini a fare proprio questo giudizio, infondato ma senza appello. Tutto ciò, ovviamente, porta grave detrimento per la nostra immagine internazionale. E rende difficilissima la stessa diagnosi dei mali del Paese: col rischio che vengano formulate ricette non adeguate per porvi rimedio.
La tesi del declino è supportata principalmente dalle pessime performance del Pil nazionale. Che però non fa distinzione tra un mercato interno prostrato dalla crisi e dall’austerità, e le ottime prestazioni internazionali delle imprese, del turismo e dell’agroalimentare. Siamo uno dei più grandi esportatori al mondo - soprattutto grazie ai nostri distretti - siamo una delle mete turistiche preferite del nuovo turismo mondiale. Ha le sue radici in questa difficoltà degli indicatori economici tradizionali (come le dinamiche delle quote di mercato nell’export mondiale) a cogliere i mutamenti in atto nel nostro Paese – difficoltà acuita dai rivolgimenti epocali avvenuti nel decennio: la crescente concorrenza dei paesi emergenti e la grande recessione. E si alimenta della divaricazione crescente tra i risultati eccellenti ottenuti meritoriamente sul campo dalla aziende nazionali e il deterioramento del sistema paese.
Quello che da questa confusione non emerge, invece, sono due tendenze molto positive: due ponti lanciati verso il futuro che fanno carta straccia delle profezie negative, e indicano una rotta, la via per restituire coraggio e convinzione agli italiani.
La prima. L’Italia non è una delle vittime della globalizzazione, anzi: ha profondamente modificato la sua specializzazione internazionale, modernizzandola e ‘sincronizzandola’ con le nuove richieste dei mercati. Abbiamo saputo costruire valore aggiunto in settori – quelli tradizionali del made in Italy: il tessile-abbigliamento, le calzature, i mobili, la nautica - in cui ci davano per spacciati a causa della concorrenza dei paesi emergenti. E abbiamo creato nuove specializzazioni, come nella meccanica - oggi di gran lunga il settore più importante per surplus commerciale con l’estero - nei prodotti innovativi per l’edilizia, nei mezzi di trasporto diversi dagli autoveicoli e nella chimica – farmaceutica. Si spiega così il fatto che nel 1999 il nostro Paese era quinto nell’UE-27 per saldo commerciale normalizzato nei manufatti, e nel 2012 è salito al terzo posto.
La seconda tendenza: proprio grazie a questa nuova specializzazione - mentre la recessione globale e l’austerità facevano crollare la nostra domanda interna, e con essa Pil e occupazione - le imprese italiane hanno registrato eccellenti performance sui mercati internazionali. Tra ottobre 2008 e giugno 2012 il fatturato estero dell’industria italiana è cresciuto più di quello tedesco e francese (Eurostat). Nel 2012 siamo stati tra i soli cinque paesi al mondo (con Cina, Germania, Giappone e Corea del Sud) ad avere un saldo commerciale con l’estero superiore ai 100 miliardi di dollari (per i manufatti non alimentari). Su un totale di 5.117 prodotti (il massimo livello di disaggregazione statistica del commercio mondiale) nel 2011 l’Italia si è piazzata prima, seconda o terza al mondo per attivo commerciale con l’estero in ben 946 casi.
Se puntiamo la lente sui paesi extra Ue - i mercati più promettenti, quelli su cui si deciderà il futuro del commercio mondiale - questa Italia ‘in declino’ è il secondo paese dell’UE, dopo la Germania, per surplus commerciale nei manufatti non alimentari (con un attivo di 63 miliardi di euro nel 2012). Mentre, appunto, sul mercato domestico domanda e produzione crollavano per ragioni che, evidentemente, nulla hanno a che vedere con la competitività delle imprese.
Non solo l’export sfata i luoghi comuni sbandierati dalla propaganda declinista. Il settore italiano del turismo è additato come uno dei protagonisti della nostra inevitabile uscita di scena. Di vero c’è, ancora una volta, che la crisi economica ha imposto tagli pesanti alle spese degli italiani. Ma l’afflusso di stranieri è in aumento. Se dismettiamo indicatori approssimativi (come quello degli arrivi di turisti internazionali, falsato dalla presenza di grandi hub internazionali e dai viaggi di lavoro), scopriamo che l’Italia, che per numero di pernottamenti di turisti stranieri è seconda in Europa soltanto alla Spagna, è addirittura il primo paese europeo per i turisti extra-UE (con 54 milioni di notti). Siamo la meta preferita per i visitatori da Cina, Giappone e Brasile; siamo alla pari con la Gran Bretagna per le provenienze dagli Stati Uniti; secondi per arrivi da Canada, Sudafrica, Australia, Russia.
Davvero ardito, dunque, parlare di un paese sul viale del tramonto. Non siamo una nazione di macerie e di cittadini rassegnati. Sappiamo competere, invece.
Allora, piuttosto che le sirene del declino dobbiamo prestare attenzione al messaggio e alle richieste dei tanti protagonisti di questo made in Italy rinnovato. Che stanno affermando un modello di sviluppo nuovo, ma perfettamente in linea con la grande vocazione nazionale: la qualità. Dove la bellezza è un fattore produttivo determinante e la cultura, sposata magari alle nuove tecnologie, un incubatore d’impresa. Una via italiana alla green economy in cui l’innovazione è un’attitudine che investe anche le attività più tradizionali - dove le eccellenze agroalimentari sono un volano per l’artigianato e il turismo, e viceversa – le cui straordinarie materie prime sono la qualità della vita, la coesione sociale, il capitale umano, i saperi del territorio.
Da qui dobbiamo ripartire, dal nostro irripetibile “ecosistema produttivo”. Dalla qualità, da questa via tutta italiana alla green economy. Incentivando la ricerca, l’ICT e l’innovazione non solo tecnologica ma anche organizzativa, comunicativa, di marketing. Sostenendo, con azioni di sistema, gli sforzi di internazionalizzazione del nostro manifatturiero, delle filiere culturali e turistiche. Con una politica industriale che faccia perno sulla valorizzazione dei nostri pilastri - manifattura, turismo, cultura, agricoltura – e indichi proprio nella sostenibilità e nella green economy la via da seguire. E con una politica fiscale conseguente, che sposti la tassazione dal lavoro verso il consumo di risorse, la produzione di rifiuti, l’inquinamento. Che incentivi la formazione, l’inclusione sociale e il contributo dei giovani e delle donne alla società e all’economia italiane. Che sostenga gli investimenti per competere nell’economia reale a scapito di quelli per fare speculazione sui mercati finanziari. Dove la burocrazia cessi finalmente di essere un freno per le imprese. Le aziende più piccole vanno accompagnate a lavorare di più in rete o in consorzio. Il turismo potrebbe intercettare più viaggiatori stranieri se l’Italia avesse migliori infrastrutture di trasporto e logistiche, se gli aeroporti italiani fossero meno periferici nelle tratte intercontinentali. Se lo sforzo promozionale dell’immagine dell’Italia all’estero non fosse polverizzato e spesso inconcludente, se le strutture ricettive fossero ammodernate e messe in rete con le tante eccellenze (culturali, paesaggistiche, produttive) del Paese. La lotta all’illegalità, alla contraffazione e all’Italian sounding deve diventare una priorità imprescindibile. Come pure le misure per strutturare reti distributive più forti, anche all’estero. Né si può prescindere dal garantire liquidità all’economia nazionale. Per sostenere le famiglie e far ripartire i consumi interni. E per garantire alle aziende, anche grazie ad un nuovo ruolo della Cassa depositi e prestiti, il credito necessario a rilanciare gli investimenti.
L’Italia, insomma, ce la può fare. È semplicemente necessario che venga messa nelle condizioni di poter fare l’Italia.