Trump, la globalizzazione e i suoi
amici nostrani
di Giorgio Calderaro
Settant'anni di pace
hanno prodotto economie nazionali estremamente interconnesse, e l'esistenza di
numerosi conflitti locali non ha scalfito la profondità dell'interconnessione.
Sono interconnessi i sistemi agricoli, i sistemi industriali, i sistemi
finanziari: la Nutella è venduta in tutto il mondo ed usa olio di palma, le
automobili sono fatte chissà dove ed utilizzano componenti provenienti da tutto
il mondo, il debito pubblico degli stati è comperato da tutti gli altri stati
del mondo, ecc. Globalizzazione è appunto questa interconnessione, o meglio la
possibilità per chiunque di creare le interconnessioni che preferisce: è possibile comperare la Nutella o il caffé equo e
solidale, la Jeep o la Fiat, i BTP italiani o i titoli del debito dello Stato o
della Corporate che preferisci.
La globalizzazione ha
portato l'ampliamento delle opportunità, l'abbassamento dei prezzi, le
concentrazioni, l'aumento dei profitti, la nascita di gruppi economici con giri
di affari superiori a quelli degli Stati nazionali, la delocalizzazione per le
imprese che producono beni di consumo di massa. Contemporaneamente, ad arginare
lo strapotere dei gruppi economici e finanziari, a cura delle istituzioni
sovranazionali sono in continuo sviluppo politiche di regolamentazione a tutela
dei diritti dei cittadini, ad es. contro i monopoli, per la trasparenza, ecc. Queste
politiche debbono essere costantemente monitorate ed incoraggiate da parte
della pubblica opinione.
La delocalizzazione ha
generato disoccupazione, non riassorbita dalle restanti aziende a maggior
valore aggiunto, e quindi ha generato grandi tensioni sociali sfruttate da
gruppi politici per guadagnare consensi con slogan del tipo "No globalizzazione",
"No immigrazione che ruba il lavoro", "No tecnologia che ruba il
lavoro","No import dalla Cina che costringe le nostre fabbriche a
chiudere", "Riportiamo a casa le nostre fabbriche".
Questi temi sono comparsi
nella campagna elettorale di Trump e sono cari anche ad alcune forze politiche
nostrane.
La mia opinione è che la
globalizzazione sia un processo macroeconomico irreversibile a cui ci si può
sottrarre con politiche protezionistiche, chiudendosi alla finanza e ai
commerci internazionali. Neanche gli Stati Uniti però possono farlo, perché
sono sì autosufficienti nelle materie prime, ma hanno bisogno dei soldi altrui
per finanziare il proprio debito. Tanto meno possiamo farlo noi, che dobbiamo
importare persino l'energia elettrica prodotta da centrali nucleari al di là
delle Alpi. Le fabbriche che tornassero dovrebbero aumentare i prezzi:
generando inflazione, perdendo le quote di mercato estero, pretendendo barriere
all'import, escludendo dalla fruizione dei propri beni le parti della
popolazione meno abbienti, aumentando la povertà. Un bel risultato! Complimenti
a questi Soloni che per conquistare il potere sfruttano il malcontento con la
menzogna!
Per quanto riguarda il
nostro neo-amico americano, come tanti già stanno commentando, assistiamo ad un
film già visto: preso il potere compiacendo alle masse in difficoltà,
ricambierà invece i propri finanziatori con ampie deregulation: in materia di
fisco, di finanza, di ambiente, di sanità. Intrapenderà delle belle azioni
propagandistiche, ma le fabbriche non torneranno: i servizi diminuiranno, le
masse in difficoltà staranno peggio, la qualità della vita peggiorerà, le
persone del nuovo cerchio magico staranno molto meglio, il mondo si riempirà di
prodotti finanziari supertossici e incontrollati.
Queste brevi riflessioni
mi portano a ragionare sui "populismi". Dicevamo con disprezzo che il
populista guadagna consensi "parlando alla pancia", cioè sfruttando le paure e l'emotività degli ascoltatori. Ora diciamo
che i populisti dovrebbero essere presi sul serio perché capiscono i problemi.
No, non sono d'accordo: i populisti sfruttano il malcontento e propongono in
malafede slogan suggestivi ma irrealizzabili. È la malafede che non sopporto
nei populisti.
Tornando ai problemi italiani, la via per riportare il lavoro c’è, e passa
per il potenziamento delle nostre imprese globali e per la costituzione di nuove
imprese industriali: imprese che prendano il posto di quelle delocalizzate e
che producano beni di maggior valore e più attrattivi, sfruttando a proprio
vantaggio proprio la globalizzazione – finanza, mercati, tecnologia. Questa via
però è più lunga che non quella dell’aizzare le masse e presuppone, oltre che
sostegni a chi è in difficoltà, anche politiche di aiuto alle imprese, in base
al principio “aiuti in cambio di lavoro (e tasse)”. Qualcuno contesta le
politiche aziendaliste, ma sono solo le aziende che creano lavoro e ricchezza
per i cittadini e per lo Stato.
Implicazioni per la democrazia
Risposta di Roberto Barabino
Caro Giorgio,
condivido gran parte dell'analisi che hai fatto sugli effetti della globalizzazione ma differisco nell'accento dato alle diverse parti.
Tu privilegi gli aspetti positivi di questo fenomeno, in termini di sviluppo globale, creazione di ricchezza, ecc., che certamente esistono, anche se non ti nascondi le criticità riguardanti le diseguaglianze crescenti e le tensioni sociali conseguenti. Ne trai comunque la conclusione che il processo sia irreversibile e che contrastarlo significhi peggiorare le cose.
Io punto di più sulla rilevanza delle criticità e baso la mia valutazione soprattutto sul fatto che, non casualmente, la più violenta reazione alla globalizzazione è venuta dagli elettori delle due più antiche e consolidate democrazie moderne, cioè la Gran Bretagna e gli Stati Uniti.
Condivido le tue osservazioni sui pericoli che possono derivare da uno sfruttamento demagogico delle difficoltà esistenti ma ritengo che quanto si è verificato, soprattutto negli USA, sia un vero e proprio "cambiamento di paradigma" che è stato espresso in modo straordinario da un lettore de La Stampa in una brevissima lettera che dice tutto; la riproduco di seguito insieme ad una mia osservazione (il grassetto è mio); entrambe sono state pubblicate come commento al predente post del mio blog:
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condivido gran parte dell'analisi che hai fatto sugli effetti della globalizzazione ma differisco nell'accento dato alle diverse parti.
Tu privilegi gli aspetti positivi di questo fenomeno, in termini di sviluppo globale, creazione di ricchezza, ecc., che certamente esistono, anche se non ti nascondi le criticità riguardanti le diseguaglianze crescenti e le tensioni sociali conseguenti. Ne trai comunque la conclusione che il processo sia irreversibile e che contrastarlo significhi peggiorare le cose.
Io punto di più sulla rilevanza delle criticità e baso la mia valutazione soprattutto sul fatto che, non casualmente, la più violenta reazione alla globalizzazione è venuta dagli elettori delle due più antiche e consolidate democrazie moderne, cioè la Gran Bretagna e gli Stati Uniti.
Condivido le tue osservazioni sui pericoli che possono derivare da uno sfruttamento demagogico delle difficoltà esistenti ma ritengo che quanto si è verificato, soprattutto negli USA, sia un vero e proprio "cambiamento di paradigma" che è stato espresso in modo straordinario da un lettore de La Stampa in una brevissima lettera che dice tutto; la riproduco di seguito insieme ad una mia osservazione (il grassetto è mio); entrambe sono state pubblicate come commento al predente post del mio blog:
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E ‘ una rivoluzione antropologica
La vittoria di Trump è uno
schiaffo all’establishment,
ai media, all’America puritana, falsa e materialista. E’ la prova che oggi i social sono più forti e attendibili della propaganda di regime,
che il popolo ha preso coscienza della
condizione di sottomissione in cui versa da decenni. Questa circostanza
cambierà l’America
e il mondo. Una vera rivoluzione antropologica , un grande vaffa al Sistema potere.
Qui non è in discussione il
fatto se Donald Trump sia meglio di
Hillary Clinton o viceversa. Il dato vero è che il popolo si è ribellato all’establishment e alle pressioni
dei media e questo è rivoluzionario.
Gianni Tirelli
.
Ho ritenuto opportuno pubblicarla perché e', a mio avviso, eccezionale per incisività,chiarezza e sintesi.
Esprime in poche parole il nocciolo di un cambiamento di straordinaria portata, che va molto al di la dell'elezione del Presidente USA.
Ora i popoli hanno la dimostrazione di poter contare davvero e non vorranno certo limitarsi a farlo in occasioni di questo rilievo, ma anche incidere sulle decisioni politiche che influenzano la loro vita e il loro benessere.
E' perciò urgente studiare e promuovere nuovi strumenti di democrazia diretta.
Ho ritenuto opportuno pubblicarla perché e', a mio avviso, eccezionale per incisività,chiarezza e sintesi.
Esprime in poche parole il nocciolo di un cambiamento di straordinaria portata, che va molto al di la dell'elezione del Presidente USA.
Ora i popoli hanno la dimostrazione di poter contare davvero e non vorranno certo limitarsi a farlo in occasioni di questo rilievo, ma anche incidere sulle decisioni politiche che influenzano la loro vita e il loro benessere.
E' perciò urgente studiare e promuovere nuovi strumenti di democrazia diretta.
Roberto
Barabino
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Sono
consapevole dei rischi contenuti nel programma di Trump; ma ritengo che
una correzione forte della globalizzazione sia indispensabile anche se avrà i
suoi costi. Questo fenomeno, così come il processo di sviluppo dell'Unione
Europea, è cresciuto troppo in fretta ed è servito soprattutto ai poteri forti
( il capitalismo delle multinazionali globali da una parte e la Germania
dall'altro), facendo pagare un prezzo altissimo agli attori ( persone e Stati)
più deboli.
Comunque il mio
interesse sta soprattutto nel fatto che il popolo americano ha capito di poter
ribaltare qualsiasi concentrazione di potere politico o economico. Ciò avrà
conseguente storiche e sarà anche positivamente contagioso in altri continenti.
Tale capacità indurrà probabilmente Trump ad usare il suo immenso potere più
accortamente di quanto oggi sembri possibile, visti i toni della sua
campagna elettorale. Stiamo a vedere.
Per quanto
riguarda la situazione italiana concordo con te al 100%.
Ciao
.
Roberto
Roberto