Nei giorni scorsi, facendo zapping fra una
rete RAI ed una Mediaset ho visto, in contemporanea, un programma dedicato alla
Libia ed uno riguardante la vicenda del bandito che è stato ucciso durante il
suo assalto ad una gioielleria di Vicenza: ne è scaturito un parallelo
drammatico e istruttivo.
Nel primo
caso si citava, fra l’altro, l’episodio della motovedetta minacciata da un
gruppo di malviventi a bordo di barche
veloci e muniti di kalashnikov: di fronte alla minaccia l’equipaggio ha prontamente
riconsegnato il barcone su cui avevano viaggiato i migranti e che era stato sequestrato. Ciò è
stato fatto, si è detto, per non mettere a repentaglio la vita dei migranti,
oltre che dell’equipaggio. Il che, da un punto di vista contingente. va bene. Ma la domanda che si pone, e che si è posto in
una recente trasmissione un esperto di studi strategici, è la seguente: può uno
Stato inviare una sua unità militare a raccogliere persone a poche miglia da un Paese in preda a bande armate, senza mettere in
conto la possibilità che venga attaccata e senza una precisa strategia di
contrasto ? E visto che siamo in tempi in cui la violenza islamista si esercita anche attraverso un
raffinato uso dei media, quale messaggio mandiamo alle bande che sfruttano il
fenomeno migratorio attraverso la nostra resa immediata? E quale messaggio, andando a
raccogliere i migranti a poche miglia dalla costa? Non viene a nessuno il
sospetto che, continuando a fare dell’accoglienza indiscriminata e senza limiti
un’ideologia e del nostro Paese il “ventre molle” dell’Europa, saremo fra non
molto sommersi da una valanga umana di proporzioni immani e assolutamente
incontrollabile, con il rischio – anzi la certezza – di infiltrazioni
terroristiche?
Nel secondo
caso a una troupe televisiva che voleva documentare i funerali del malvivente
ucciso, appartenente ad una comunità rom, è stato chiesto dalle forze
dell’ordine di allontanarsi perché i membri della predetta comunità avrebbero
potuto avere reazioni violente, sopprimendo così un basilare diritto di
cronaca. Ancora una volta, quindi, lo Stato ha ceduto di fronte ai prepotenti.
Se poi,
andando a tempi più lontani, rievochiamo quanto è emerso dalle indagini sulla
supposta trattativa Stato - Mafia, sappiamo per certo, anche senza ipotizzare l’esistenza
di tale trattativa, che dopo le bombe di Milano, Firenze e Roma del 1992, lo
Stato accolse le richieste della Mafia eliminando il regime di carcere duro
previsto dall’articolo 41 bis per alcune
centinaia di mafiosi (l’allora Ministro della Giustizia Conso ha dichiarato recentemente che si trattò di una sua
decisione personale). Anche qui un cedimento vistoso, che non è certo estraneo
al successivo, forte radicamento della
mafia anche nel centro e nord Italia.
L’ultimo
clamoroso esempio di resa ai prepotenti si è avuto in occasione dell’attacco
degli “hooligans” olandesi a Roma, con i poliziotti che in Piazza di Spagna
osservavano i vandalismi in atto senza reagire. A chi chiedeva spiegazioni
rispondevano “vogliamo evitare il
peggio”.
Abbiamo quindi un grave problema
nazionale di scarsa forza dello Stato, che è più incline a sottostare alle
prepotenze dei fuorilegge che a contrastarle. Questa attitudine potrebbe essere
sfruttata dall’ ISIS, anche attraverso un sapiente uso dei flussi migratori e
della propaganda jihadista, per dare concreta attuazione ai suoi proclami sulla
futura conquista di Roma .
A fronte di questa
fosca e tutt’altro che improbabile prospettiva, è necessario un vero e proprio
“colpo di reni”, di cui si è avuto un primo segnale con l’affermazione del
Ministro Gentiloni “siamo pronti a combattere”, frase che gli è valsa numerose
critiche, quasi che fosse un guerrafondaio anziché, come è, una persona
consapevole dei rischi spaventosi che stiamo correndo. La sua successiva precisazione
sul primato della politica non toglie valore alla prima affermazione.
La pronta replica dell’ISIS che lo ha definito
“crociato” dimostra che la frase ha colto nel segno: a chi conosce solo la violenza e
promette di esercitarla nei nostri confronti bisogna far capire con durezza che, se ci provasse, troverebbe
pane per i suoi denti.
Non a caso gli
antichi Romani, che erano altrettanto consapevoli delle minacce allora
presenti, avevano il motto “si vis pacem, para bellum”.
Ciò non
significa, ovviamente, avviare in modo avventato un’azione militare prima di aver esperito con
serietà e con forza ogni azione diplomatica e senza aver ottenuto il placet e la collaborazione dei nostri partners, ma
non si può ipocritamente cercare di nascondere che questa opzione va
attentamente considerata, se non per portare la pace in Libia, quantomeno per
presidiarne alcune coste al fine di evitare l’uso bellico dei migranti da parte
dello Stato Islamico e per controllare i flussi migratori anche ridimensionando,
come fatto a suo tempo in Albania, la flotta di navi e imbarcazioni con cui si
fa la tratta di esseri umani. Essa, fra l’altro, procurando introiti non
indifferenti, finanzia i criminali e, potenzialmente, lo stesso Stato Islamico.
Non è
neppure un caso che la Chiesa cattolica, certamente non accusabile di
bellicismo, abbia previsto esplicitamente l’opzione militare, sia pure come
“ultima ratio”. Ecco quanto ha
dichiarato a margine dell’incontro
con le Autorità italiane nell’anniversario dei Patti Lateranensi, Mons. Parolin, Segretario di Stato del
Vaticano: “
«Abbiamo
parlato della Libia, dell'importanza di rilanciare l'iniziativa diplomatica, e
che qualsiasi intervento di tipo armato
sia sempre fatto secondo le norme della legalità internazionale, e quindi
che ci sia un'iniziativa dell'Onu... C'è
una minaccia, la situazione è grave ed esige una risposta concorde della
comunità internazionale, esige una risposta rapida, la più rapida possibile,
dall'Onu».
E’
auspicabile che tutte le forze politiche concorrano alle necessarie valutazioni
e supportino il Governo nelle scelte che si renderanno necessarie, senza
strumentalizzazioni politiche di alcun tipo. Ne va del nostro futuro e di
quello dei nostri figli.