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domenica 22 febbraio 2015

Italia a rischio: lo Stato faccia lo Stato



 Nei giorni scorsi, facendo zapping fra una rete RAI ed una Mediaset ho visto, in contemporanea, un programma dedicato alla Libia ed uno riguardante la vicenda del bandito che è stato ucciso durante il suo assalto ad una gioielleria di Vicenza: ne è scaturito un parallelo drammatico e istruttivo.
Nel primo caso si citava, fra l’altro, l’episodio della motovedetta minacciata da un gruppo di  malviventi a bordo di barche veloci e muniti di kalashnikov: di fronte alla minaccia l’equipaggio ha prontamente riconsegnato il barcone su cui avevano viaggiato i  migranti e che era stato sequestrato. Ciò è stato fatto, si è detto, per non mettere a repentaglio la vita dei migranti, oltre che dell’equipaggio. Il che, da un  punto di vista contingente. va bene.  Ma la domanda che si pone, e che si è posto in una recente trasmissione un esperto di studi strategici, è la seguente: può uno Stato inviare una sua unità militare a raccogliere persone a poche miglia da  un Paese  in preda a bande armate, senza mettere in conto la possibilità che venga attaccata e senza una precisa strategia di contrasto ? E visto che siamo in tempi in cui la violenza  islamista si esercita anche attraverso un raffinato uso dei media, quale messaggio mandiamo alle bande che sfruttano il fenomeno migratorio attraverso la nostra  resa immediata? E quale messaggio, andando a raccogliere i migranti a poche miglia dalla costa? Non viene a nessuno il sospetto che, continuando a fare  dell’accoglienza indiscriminata e senza limiti un’ideologia e del nostro Paese il “ventre molle” dell’Europa, saremo fra non molto sommersi da una valanga umana di proporzioni immani e assolutamente incontrollabile, con il rischio – anzi la certezza – di infiltrazioni terroristiche?
Nel secondo caso a una troupe televisiva che voleva documentare i funerali del malvivente ucciso, appartenente ad una comunità rom, è stato chiesto dalle forze dell’ordine di allontanarsi perché i membri della predetta comunità avrebbero potuto avere reazioni violente, sopprimendo così un basilare diritto di cronaca. Ancora una volta, quindi, lo Stato ha  ceduto di fronte ai prepotenti.
Se poi, andando a tempi più lontani, rievochiamo quanto è emerso dalle indagini sulla supposta trattativa Stato - Mafia, sappiamo per certo, anche senza ipotizzare l’esistenza di tale trattativa, che dopo le bombe di Milano, Firenze e Roma del 1992, lo Stato accolse le richieste della Mafia eliminando il regime di carcere duro previsto  dall’articolo 41 bis per alcune centinaia di mafiosi (l’allora Ministro della Giustizia Conso ha dichiarato  recentemente che si trattò di una sua decisione personale). Anche qui un cedimento vistoso, che non è certo estraneo al successivo, forte  radicamento della mafia anche nel centro e nord Italia.
L’ultimo clamoroso esempio di resa ai prepotenti si è avuto in occasione dell’attacco degli “hooligans” olandesi a Roma, con i poliziotti che in Piazza di Spagna osservavano i vandalismi in atto senza reagire. A chi chiedeva spiegazioni rispondevano  “vogliamo evitare il peggio”.
Abbiamo quindi un grave problema nazionale di scarsa forza dello Stato, che è più incline a sottostare alle prepotenze dei fuorilegge che a contrastarle. Questa attitudine potrebbe essere sfruttata dall’ ISIS, anche attraverso un sapiente uso dei flussi migratori e della propaganda jihadista, per dare concreta attuazione ai suoi proclami sulla futura conquista di Roma .
A fronte di questa fosca e tutt’altro che improbabile prospettiva, è necessario un vero e proprio “colpo di reni”, di cui si è avuto un primo segnale con l’affermazione del Ministro Gentiloni “siamo pronti a combattere”, frase che gli è valsa numerose critiche, quasi che fosse un guerrafondaio anziché, come è, una persona consapevole dei rischi spaventosi che stiamo correndo. La sua successiva precisazione sul primato della politica non toglie valore alla prima affermazione.
La  pronta replica dell’ISIS che lo ha definito “crociato” dimostra che la frase ha colto nel segno: a chi conosce solo la violenza e  promette di esercitarla nei nostri confronti bisogna far capire  con durezza che, se ci provasse, troverebbe pane  per i suoi denti.
Non a caso gli antichi Romani, che erano altrettanto consapevoli delle minacce allora presenti, avevano il motto “si vis pacem, para bellum”.
Ciò non significa, ovviamente, avviare in modo avventato  un’azione militare prima di aver esperito con serietà e con forza ogni azione diplomatica e senza aver ottenuto il placet  e la collaborazione dei nostri partners, ma non si può ipocritamente cercare di nascondere che questa opzione va attentamente considerata, se non per portare la pace in Libia, quantomeno per presidiarne alcune coste al fine di evitare l’uso bellico dei migranti da parte dello Stato Islamico e per controllare i flussi migratori anche ridimensionando, come fatto a suo tempo in Albania, la flotta di navi e imbarcazioni con cui si fa la tratta di esseri umani. Essa, fra l’altro, procurando introiti non indifferenti, finanzia i criminali e, potenzialmente, lo stesso Stato Islamico.
Non è neppure un caso che la Chiesa cattolica, certamente non accusabile di bellicismo, abbia previsto esplicitamente l’opzione militare, sia pure come “ultima ratio”. Ecco quanto ha dichiarato  a margine dell’incontro con le Autorità italiane nell’anniversario dei Patti Lateranensi, Mons. Parolin, Segretario di Stato del Vaticano: “
«Abbiamo parlato della Libia, dell'importanza di rilanciare l'iniziativa diplomatica, e che qualsiasi intervento di tipo armato sia sempre fatto secondo le norme della legalità internazionale, e quindi che ci sia un'iniziativa dell'Onu... C'è una minaccia, la situazione è grave ed esige una risposta concorde della comunità internazionale, esige una risposta rapida, la più rapida possibile, dall'Onu».
E’ auspicabile che tutte le forze politiche concorrano alle necessarie valutazioni e supportino il Governo nelle scelte che si renderanno necessarie, senza strumentalizzazioni politiche di alcun tipo. Ne va del nostro futuro e di quello dei nostri figli.

martedì 10 febbraio 2015

Lettera aperta al Ministro Boschi sul decreto fiscale


10 febbraio 2015

Gentile Ministro,

ho apprezzato quanto Lei ha detto, in una trasmissione televisiva, circa il ruolo del Presidente Mattarella: “Con un governo come il nostro, fatto di persone giovani,serviva una figura di garanzia, capace di dirci, quando sbagliamo, che stiamo sbagliando”.
Ho anche apprezzato quanto detto, nel suo discorso d’insediamento, dal Presidente “Sarò un arbitro imparziale, ma chiedo ai giocatori di aiutarmi”.
Combinando queste due dichiarazioni, mi pare che il modo migliore di procedere sia quello di evitare provvedimenti che mettano in imbarazzo il Presidente della Repubblica all’atto della loro promulgazione. E’ questo certamente il caso del Decreto fiscale, che è stato sospeso a seguito delle tante critiche ricevute e che verrà ripreso in esame il 20 c.m. nel Consiglio dei Ministri
Nella predetta trasmissione Lei ha affermato al riguardo “ che non ci sia una norma per Berlusconi lo dimostra il fatto che in Francia hanno una norma uguale, con una soglia più alta, non del 3% ma del 10% di non punibilità dell’evasione fiscale; non credo si possa fare o non fare una norma che riguarda 60 milioni di italiani perché riguarda anche Berlusconi”.
Per evitare al Governo di sbagliare e quindi di incorrere in una possibile bocciatura del decreto, va tenuto presente che il Code genéral des impots francese parla all’art. 1741 di soglia del 10%, ma solo se non si superano  i 153 euro, mentre la norma prevista nel nostro Decreto fiscale consentirebbe di non incorrere in sanzioni penali anche per l’evasione di milioni o decine di milioni di euro, non essendo previsto alcun tetto: ciò sarebbe oggettivamente un incentivo ad evadere e ad evadere molto ed avrebbe anche la paradossale conseguenza di consentire la creazione di “fondi neri legalizzati” che in molti casi andrebbero ad alimentare, sotto forma di tangenti, la corruzione  anche delle forze politiche.
Il Presidente del Suo partito, Matteo Orfini ha dichiarato in una recente intervista: “riteniamo giusto che ci sia una differenza fra frode fiscale ed errore fiscale: se c’è dolo, si tratta di reato, dunque punibile penalmente; mentre, in caso di  sbaglio, basta la sanzione amministrativa”.
Un concetto analogo è stato espresso in una trasmissione radiofonica, dal  Presidente del Consiglio: “Il senso è che se fai il furbo e ti becco, ti stango, ti faccio pagare il doppio, ma non diamo corso al processo penale se c’è buona fede. Berlusconi non c’entra niente, ma bisogna dividere  tra gli evasori e chi fa errori in buona fede.
Quello che è certo è che un incentivo ad evadere non è il modo per fare tale distinzione. Va inoltre escluso dalla presunzione di buona fede chi è già stato condannato per  frode fiscale.
Auspico quindi che la versione finale del Decreto sia tale da non ricreare equivoci in merito a chi potrà fruire dei benefici previsti. E’ importante che, avendo il Parlamento dato un vastissimo consenso, con il voto e con gli applausi, al nuovo Presidente della Repubblica,  il Governo  eviti forzature che creerebbero un  potenziale conflitto istituzionale e che lo vedrebbero inevitabilmente perdente.
Cordiali saluti.
Roberto Barabino 

 Blog "La politica dei cittadini" (www.civicum.blogspot.com)





lunedì 2 febbraio 2015

Così parlò Mattarella




Pubblico una parte dell’eccellente intervista rilasciata da Sergio Mattarella il 17 febbraio 1989, tre anni prima del ciclone di Mani Pulite,  a Giampaolo Pansa in merito alla crisi dei partiti e, in particolare, del suo cioè la Democrazia Cristiana. E’ stata ripresa in un articolo di Pansa, su Libero dell’ 1 febbraio 2015, che esprime un vivo apprezzamento per il nuovo Presidente della Repubblica.
Le parole pronunciate da Mattarella, molto schiette e preveggenti, ne  dimostrano la tempra e la forte capacità di analisi.. Le sue considerazioni evidenziano problemi ancora parzialmente attuali nel nostro sistema politico ed evidenziano il contributo che deve venire dalla società civile se si vuole rinnovare davvero tale sistema.

“Bisogna cominciare dallo stato del tesseramento. E’ molto gonfiato e questo rende dubbia la legittimità della rappresentanza nel partito. Il Chi rappresenta Chi e in virtù di che cosa. E c’è di peggio. I tanti padroni delle tessere in sede locale paralizzano la vita della DC. I leader nazionali sono prigionieri di questi concessionari del marchio democristiano. Ne nasce un rapporto inverso a quello normale: non comandano i vertici del partito, bensì i gruppi periferici che sono i veri padroni dei vertici nazionali.
C’è poi un secondo male. Non è soltanto della DC, anche se noi democristiani ce ne stiamo accorgendo prima di altri. Il reclutamento dei dirigenti in periferia  avviene per linee sempre più interne. I partiti pescano i loro quadri soltanto tra i professionisti della politica già all’opera nelle correnti, nelle sub correnti o nelle istituzioni. Questo rende i partiti asfittici e sempre più distanti dal loro retroterra sociale. Infine i quadri selezionati in questo modo risultano mediocri.
Anche la DC si trova in questa trappola molto rischiosa. Dobbiamo riuscire a rompere il sistema che Le ho descritto, inserendo nei partiti energie nuove, raccolte dentro la società civile. Oppure i partiti moriranno. Non abbia timore ad attribuirmi questa previsione nera”.
In pochissimi anni i partiti italiani diventeranno dei corpi sempre più separati dalla società. E sempre meno qualificati. Nella periferia della Democrazia Cristiana sta già accadendo. Il vurus è molto esteso. E rischia di intaccare in modo irreparabile i piani alti del partito”.