Nelle frequenti apparizioni televisive che hanno
seguito la comunicazione della data del referendum , il premier ha difeso la
riforma costituzionale segnalando come
suoi principali benefici la riduzione
del numero dei parlamentari e, quindi, dei costi della politica e l’eliminazione
del bicameralismo paritario .
Non ha fatto
cenno, invece, al collegamento di tale riforma con la nuova legge elettorale, probabilmente per non favorire la polemica sul “combinato
disposto” fra i due provvedimenti , che i suoi oppositori, a partire da quelli
interni al PD, vedono come il veicolo di
un fenomeno da loro fortemente paventato, cioè quello dell’ “uomo solo al comando” e cioè di
un’eccessiva concentrazione di potere in
capo all’esecutivo. Il problema è che, cercando
di evitare questo scoglio, Renzi si è privato dell’argomentazione più forte a favore
del SI e cioè quella di garantire, con l’insieme delle riforme, una reale governabilità in un Paese in
cui per decenni tutte le scelte sono
state frutto di faticose mediazioni all’interno di deboli coalizioni oppure di
compromessi sottobanco con le opposizioni.
L’esigenza
di superare questa deplorevole situazione è molto sentita da gran parte degli elettori di diverse aree politiche,
consapevoli dei deleteri effetti del clima consociativo
che ha permeato la prima e la seconda repubblica, in cui tutte le forze politiche
cercavano di approfittare della precarietà degli esecutivi per strappare
concessioni, cioè risorse pubbliche per i fini più disparati, con effetti
devastanti sul bilancio dello Stato e sull’aumento incontrollato del debito
pubblico. Il grande successo ottenuto nel 2014 da Renzi alle elezioni europee
può essere interpretato come un ampio
mandato, anche da parte di elettori estranei al PD, a mutare questo stato di
cose, ma forse è proprio l’ampiezza di tale consenso che ha indotto il Premier
a compiere diverse forzature nel processo di approvazione della riforma
costituzionale (ricorso alla fiducia, sostituzione di membri dissenzienti della
Commissioni Affari Costituzionali, ecc.) che hanno inasprito lo scontro
politico .
Per
fronteggiare la fronda interna e la
vasta opposizione esterna Renzi ha
successivamente dichiarato una disponibilità a modificare l’Italicum, ma dopo il
referendum.
Su questa
proposta, vista come dilatoria dalla minoranza, nell’ultima Direzione del PD si è acceso un confronto
assai duro che è finito con un nulla di
fatto: Renzi ha annunciato una commissione per studiare i cambiamenti
invitando la minoranza a parteciparvi e questa ha accettato, nominando Cuperlo
a rappresentarla. Si tratta però, da
entrambe le parti, di mosse tattiche: dato che i sondaggi vedono una certa
prevalenza, al momento, dei NO, la
minoranza ha interesse a non opporsi al l’iniziativa
ma anche a non favorire un accordo e
Renzi ha interesse a mostrare che una
conclusione negativa sarebbe indice di
un atteggiamento strumentale dei suoi interlocutori. Le schermaglie
proseguiranno verosimilmente fino alla
data del referendum.
Se vincerà
il SI, Renzi non darà probabilmente seguito all’ipotesi di modificare l’Italicum
e si avvarrà dell’investitura popolare per rendere intoccabili le sue riforme.
Se vincerà il NO l’Italicum sarà probabilmente spazzato via e si tornerà al
proporzionalismo. Entrambe le prospettive non sono soddisfacenti. La prima
perché consentirebbe ad un’esigua
minoranza di appropriarsi di tutto il
mazzo del potere, creando un oggettivo squilibrio nel rapporto fra le
Istituzioni., anche se i timori di una deriva autoritaria sono certamente
esagerati. La seconda perché porterebbe inevitabilmente a coalizioni precarie e
rinnoverebbe la deleteria “politica
dell’inciucio” che non corrisponde affatto alle esigenze di un Paese che voglia
essere attrattivo e competitivo.
Il fosco quadro che ho delineato ci dice che la partita
della riforma, cioè creare un quadro di “regole del gioco” condivise, è
sostanzialmente perduta, a meno che non maturi “in extremis” in entrambi i
contendenti del PD la consapevolezza che senza un accordo che preveda un ragionevole equilibrio fra
governabilità e rappresentanza, si peggiora fortemente la qualità della nostra
democrazia e si fanno correre gravi rischi non solo al PD, che può perdere la
sua centralità, ma all’intero Paese, già in forte difficoltà.
E’
un’ipotesi altamente improbabile ma, si sa, la speranza è l’ultima a morire.