Pubblico un interessante contributo di Giorgio Calderaro, attento osservatore della scena socioeconomica, che tratta opportunamente in termini strategici di un tema che è centrale nel dibattito politico ma che spesso viene affrontato solo in termini contingenti.
Da qualche tempo si continua a recitare il mantra della necessità della crescita per l’Italia, e oggi si scopre che lo stesso problema vale anche per l’Europa.
Dunque dobbiamo tutti crescere, cioè aumentare il fatturato del sistema che vende prodotti e servizi, ma nessuno ha risposto alla domanda “si, crescere … ma vendendo che cosa e a chi?”
Divido il problema in due: 1) l’Italia deve mettersi oggettivamente in grado di crescere 2) l’Italia deve decidere su quali attività impegnarsi per sostenere la crescita.
1 - Mettiamoci in grado di crescere
Luca Ricolfi, in “L’Enigma della crescita”, Mondadori Editore, lettura che raccomando fortemente, analizza diversi dati econometrici dei 34 Paesi dell’OCSE tra il 1995 e il 2007, alla ricerca di una correlazione tra questi e il tasso di crescita. Così facendo, identifica dati alla mano quali fattori influenzano maggiormente(in positivo o in negativo) il tasso di crescita e quali lo influenzano meno, e commenta ampiamente i fatti riscontrati. Di questi, ne cito qui solo tre: perché su di questi voglio qui portare l’attenzione e perché la loro importanza è ormai di diffuso dominio: si constata che, nel periodo in questione per i paesi indagati, tanto più alta è la qualità della formazione, tanto più alta è l’efficienza di istituzioni e infrastrutture e tanto più basso è il carico fiscale sulle imprese, a parità del resto, tanto maggiore è stato il tasso di crescita.
Tra l’altro, l’analisi di Ricolfi aiuta a capire perché anche l’Europa nel suo complesso sta crescendo molto poco e perché in tutti i paesi si parla di necessità di riforme.
Viene voglia allora, spero non illecitamente, di estendere quelle correlazioni alla situazione dei giorni nostri, e cercare di capire con quanta incisività si stia operando per alzare la qualità della formazione, alzare l’efficienza di istituzioni e infrastrutture e abbassare il carico fiscale sulle imprese, per re-innescare la crescita. Il ragionamento fa intuire che per crescere ci vuole più lavoro, per avere più lavoro ci vogliono più imprese, per avere più imprese occorre incentivarne l’insediamento e semplificarne l’attività, per avere imprese che assumano occorre aiutarle a trovare personale adeguatamente preparato. La domanda è: stiamo operando in tal senso?
Il dibattito ora si sta applicando anche all’Europa, per farla crescere da ente chioccia e normatore a motore di sviluppo: anche l’Europa, come istituzione nel suo complesso, può migliorare la sua efficacia, a beneficio dei paese Europei.
Sto osservando con interesse i casi in cui le Istituzioni sono impegnate a rincorrere singoli investitori (italiani ed esteri) per convincerli a investire nel nostro paese: è ovvio che un investitore investe qui solo perché qui ha dei vantaggi e quindi penso che sia necessario pattuire di volta in volta condizioni che consentano al lavoro di restare da noi: con tanti saluti ad una interpretazione rigida del principio dell’uguaglianza delle norme per tutti. Sembrerebbe che l’espressione “mercato del lavoro” sia ormai completamente obsoleta, sostituita dall’espressione “mercato delle aziende”; come se alcune aziende dicessero: “Caro Stato, o mi concedi condizioni di favore, oppure trasferisco stabilimenti e lavoro altrove" (Lussemburgo insegna). Ci rendiamo conto di queste implicazioni, figlie di una sempre più inarrestabile globalizzazione?
Sarebbe altrettanto interessante esaminare i comportamenti che sarebbero più corretti da tenere con le aziende in fallimento, distinguendo tra quelle che chiudono perché non hanno più mercato e quelle che chiudono i per problemi finanziari: con fallimento ci perdono tutti, creditori e lavoratori ma anche lo Stato che deve erogare sussidi. Forse sarebbe meglio, nei casi in cui il mercato c’è, lasciare all’azienda due – tre anni sabbatici, magari trasferendola a nuovi manager e/o ai lavoratori stessi: magari i creditori ci perdono lo stesso, ma il lavoro è salvato e lo Stato, anziché perderci, incassa l’Irpef.
Vedo molto critico il percorso che dovrebbe portare le nostre istituzioni ad una maggiore efficienza: lo constatiamo ogni giorno. L’aver sostituito il buon senso (per altro non oggettivamente riscontrabile) con l’iperregolamentazione (oggettivamente riscontrabile salvo illeggibilità) ha creato nel tempo una vastissima e onnipotente burocrazia con potere di “normare”: non cito casi, basta leggere il giornale. Però chi è in grado di semplificare le regole per ridurre i costi di applicazione e di controllo? Forse lo stesso insieme di persone che si vanta di aver creato proprio quelle indispensabili regole che si soffocano? E quando le regole, più semplici e meno costose, richiedano costi di controllo minori e quindi minor personale addetto, che fine fanno le persone in esubero? E poi, chi è in grado di distinguere tra semplificazione e apertura all’ abuso? In quest’area convergono le discussioni sulla Giustizia civile e non, sugli appalti, su permessi ed autorizzazioni, sulla incertezza e sulla variabilità nel tempo e nei luoghi delle norme stesse (cosa che dissuade le persone dall’affrontarle), ecc.
Sarebbe poi interessante, parlando di efficienza delle istituzioni, anche inserire il dibattito sui “diritti acquisiti”. Oggi che non siamo più liberi di batter moneta a piacimento, ci rendiamo conto che alcuni diritti acquisiti legati a fatti oggettivi non possano che essere ribaditi intangibili (es., la pensione di chi ha versato i contributi), mentre altri diritti che costino denaro alla collettività e che discendano da norme arbitrarie possano essere ridiscussi (es., i vitalizi). Forse, all’interno di questo tema, possono rientrare le concessioni (e quant’altro): laddove il concessionario, titolare di un diritto illimitato e poco oneroso, possa lucrare liberamente grazie a libertà di prezzi e di sub-concessione.
Sarebbe interessante esaminare se la legge di stabilità attuale va incontro o no e in che misura alle linee d’intervento delineate e se si pensa che sia efficace ai fini della crescita. Sarebbe interessante capire se esiste una configurazione economica che in situazione di PIL strisciante consenta di abbattere il debito pubblico, o se forse è necessaria la consapevolezza che se vogliamo destinare un po’ di risorse al finanziamento della crescita allora il nostro debito non calerà per molto tempo.
Concludendo per ora queste considerazioni, volendo far aumentare il nostro PIL per poter avere più lavoro, le infrastrutture debbono funzionare, le imprese debbono essere facilitate, la burocrazia deve essere “iper”-semplificata ed essere messa al servizio di imprese e cittadini (e non il contrario), le norme debbono essere stabili o modificarsi a vantaggio del fruitore, la formazione deve poter coniugare gli aspetti culturali, che ci caratterizzano nel mondo, con quelli operativi, che servono alle imprese.
2 - Ma crescere per andare dove? Qual è la nostra visione del futuro?
Ormai siamo un paese de-industrializzato, e le grandi imprese che davano da lavorare stabilmente a migliaia di persone non torneranno più: si sono sparse per l’Europa e per l’Asia e là resteranno. Similmente i grandi capitali che finanziavano il nostro sistema industriale non ci sono più; i grandi capitali ora sono altrove, negli Stati Uniti, in Asia, ecc. e con la globalizzazione possono andare dove più gli conviene.
La domande da porci sono allora le seguenti.
· Nell’ipotesi che 1) la globalizzazione perduri ancora sufficientemente, 2) per dare un futuro al nostro paese occorra creare lavoro nel nostro paese e 3) il nostro paese sia diventato intrinsecamente attrattivo per investimenti imprenditoriali, allora, fatte queste ipotesi, si possono prefigurare settori di attività tali da mantenersi attrattivi nel tempo e quindi garantirci un significativo periodo di tranquillità economica?
· Esistono settori di attività che, radicati nel nostro territorio ma che hanno come mercato il mondo, continueranno ad avere solo nel nostro territorio ragione di esistere e quindi non potranno essere rilocati altrove?
· Abbiamo noi risorse strategiche che siano solo nostre e che siano appetibili sul mercato mondiale (e che possano giustificare investimenti ed occupazione duraturi) e che quindi debbano essere particolarmente tutelate e incoraggiate, anche con facilitazioni e finanziamenti in ricerca e sviluppo, perché “di interesse nazionale”?
Oggi già si stanno delineando alcune risposte, altre potrebbe essere interessante identificarne e capire come proteggerle.
Però, se ci si interroga sul dove investire, occorre prima interrogarsi su che cosa, nell’economia ormai globalizzata, il mercato del mondo vorrà comperare alla bancarella Italia perché quello gli interessa e solo da noi lo trova? E prima ancora occorre chiedersi: che cosa il mercato del mondo nel prossimo futuro cercherà? Ma come vivrà il mondo del futuro prossimo e di che cosa potrà aver bisogno?
Ecco che qui serve capacità di visione e su questi temi occorre confrontarsi.
Formulo esempi di ragionamento: continuando le economie emergenti ad emergere a tassi di crescita per noi utopici, la massa di persone facoltose continuerà a crescere di numero. Pertanto tutto quello che è identificabile come “lusso” avrà sempre mercato: moda, arredo, agro-alimentare, turismo: questi sono fronti in cui creatività, capacità esecutive, tecnologia, cultura non ci mancano e possiamo combattere con successo.
Un altro esempio: la fabbriche di prodotti di massa sono altrove, ma i prodotti di massa possono necessitare di componenti speciali. Componentistica specializzata e macchine industriali saranno dunque sempre necessarie alle fabbriche del mondo: qui inventiva e capacità realizzative si sono già affermate e continueranno ad esserlo presumibilmente a lungo, se l’intero settore saprà tenersi sempre aggiornato.
Un altro esempio, doppio per amor di sinteticità: l’Europa, che è un continente con sviluppo geografico sull’asse est-ovest, ha fame di energia ma non ha risorse e vedrà moltiplicarsi sempre più le interazioni tra i suoi cittadini. Potrà l’Italia aver benefici dal diventare un hub per il trasporto di energia (rigassificatori, TAP) e persone (TAV e quant’altro), con importanti ricadute occupazionali?
Forse anche i settori delle nanotecnologie e delle bioplastiche potranno essere promettenti, ma se l’attenzione è sulla quantità di lavoro che potranno creare, occorre considerare la dimensione del relativo mercato e la non imitabilità delle proposte. Per questi motivi ritengo che il mercato dei droni, delle stampanti 3d, della applicazioni software, su cui è comunque necessario essere presenti per mantenere e sviluppare le relative conoscenze, non garantiscano importanti volumi di lavoro: ormai questi settori vedono produttori in tutto il mondo e quindi (a meno che non vi si inventi qualcosa di utile e difficilmente imitabile) non penso che porteranno da noi grandi volumi di lavoro.
Ci sono poi punte di eccellenza, e guai se non ci fossero perché fanno anche da traino per tutto il resto: nell’aerospaziale, nella robotica, nell’energie rinnovabili. Ma riusciranno questi settori, (o altri) su cui la presenza è indispensabile, a generare significativi volumi di lavoro?
Riusciamo a pensare quali azioni potranno essere svolte per fronteggiare l’impatto sulle nostre economie dei conflitti in medio oriente e delle guerriglie in Africa? Noi sappiamo che molti conflitti in Africa sono alimentati dalla competizione per l’accaparramento di materie prime. Possono essere individuate politiche da seguire per fronteggiare queste situazioni?
3 - Una riflessione finale, che è poi anche iniziale
Ai ponti gettati sul futuro occorre comunque garantire una base efficace e coerente. Non si può vendere all’estero senza un adeguato sistema comunicativo e finanziario di supporto. Non si può puntare su un turismo dall’estero di massa se alla prima occasione in merito, l’Expo, si scopre che persone straniere conosciute occasionalmente non ne sanno niente, se si legge che gli alberghi hanno moltiplicato i prezzi (come se un cittadino straniero sentisse l’obbligo di visitare l’EXPO e quindi fosse disposto a pagare qualunque cifra), disincentivando i tour operator, se si viene a sapere che le nostre eccellenze culturali non sanno erogare, coordinandosi con chi di dovere, servizi di trasporto, di ospitalità e di fruizione decenti. La nostra comunità nazionale, sfilacciata in innumerevoli centri decisionali e costellata di tabù intoccabili, sembra proprio che non riesca a far “sistema” a causa di incapacità, gelosie e miopie.
4 - Conclusioni
In questo breve testo, ho posto diverse questioni, nella speranza che la ricerca di risposte, a queste come a mille altre domande, possa portare a migliori consapevolezze e, col tempo, a risposte efficaci da parte di chi ha il potere di trovar soluzioni e dar risposte.
Giorgio Calderaro