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lunedì 24 novembre 2014

Crescita e visione




Pubblico un interessante contributo di Giorgio Calderaro, attento osservatore della scena socioeconomica, che tratta opportunamente in termini strategici di un tema che è  centrale nel dibattito politico ma che spesso viene affrontato solo in termini contingenti.

Da qualche tempo si continua a recitare il mantra della necessità della crescita per l’Italia, e oggi si scopre che lo stesso problema vale anche per l’Europa.
Dunque dobbiamo tutti crescere, cioè aumentare il fatturato del sistema che vende prodotti e servizi, ma nessuno ha risposto alla domanda “si, crescere … ma vendendo che cosa e a chi?”
Divido il problema in due: 1) l’Italia deve mettersi oggettivamente in grado di crescere 2) l’Italia deve decidere su quali attività impegnarsi per sostenere la crescita.

1 - Mettiamoci in grado di crescere
Luca Ricolfi, in “L’Enigma della crescita”, Mondadori Editore, lettura che raccomando fortemente, analizza diversi dati econometrici dei 34 Paesi dell’OCSE tra il 1995 e il 2007, alla ricerca di una correlazione tra questi e il tasso di crescita. Così facendo, identifica dati alla mano quali fattori influenzano maggiormente(in positivo o in negativo) il tasso di crescita e quali lo influenzano meno, e commenta ampiamente i fatti riscontrati. Di questi, ne cito qui solo tre: perché su di questi voglio qui portare l’attenzione e perché la loro importanza è ormai di diffuso dominio: si constata che, nel periodo in questione per i paesi indagati, tanto più alta è la qualità della formazione, tanto più alta è l’efficienza di istituzioni e infrastrutture e tanto più basso è il carico fiscale sulle imprese, a parità del resto, tanto maggiore è stato il tasso di crescita.
Tra l’altro, l’analisi di Ricolfi aiuta a capire perché anche l’Europa nel suo complesso sta crescendo molto poco e perché in tutti i paesi si parla di necessità di riforme.
Viene voglia allora, spero non illecitamente, di estendere quelle correlazioni alla situazione dei giorni nostri, e cercare di capire con quanta incisività si stia operando per alzare la qualità della formazione, alzare l’efficienza di istituzioni e infrastrutture e abbassare il carico fiscale sulle imprese, per re-innescare la crescita. Il ragionamento fa intuire che per crescere ci vuole più lavoro, per avere più lavoro ci vogliono più imprese, per avere più imprese occorre incentivarne l’insediamento e semplificarne l’attività, per avere imprese che assumano occorre aiutarle a trovare personale adeguatamente preparato. La domanda è: stiamo operando in tal senso?
Il dibattito ora si sta applicando anche all’Europa, per farla crescere da ente chioccia e normatore a motore di sviluppo: anche l’Europa, come istituzione nel suo complesso, può migliorare la sua efficacia, a beneficio dei paese Europei.
Sto osservando con interesse i casi in cui le Istituzioni sono impegnate a rincorrere singoli investitori (italiani ed esteri) per convincerli a investire nel nostro paese: è ovvio che un investitore investe qui solo perché qui ha dei vantaggi e quindi penso che sia necessario pattuire di volta in volta condizioni che consentano al lavoro di restare da noi: con tanti saluti ad una interpretazione rigida del principio dell’uguaglianza delle norme per tutti. Sembrerebbe che l’espressione “mercato del lavoro” sia ormai completamente obsoleta, sostituita dall’espressione “mercato delle aziende”; come se alcune aziende dicessero: “Caro Stato, o mi concedi condizioni di favore, oppure trasferisco stabilimenti e lavoro altrove" (Lussemburgo insegna). Ci rendiamo conto di queste implicazioni, figlie di una sempre più inarrestabile globalizzazione?
Sarebbe altrettanto interessante esaminare i comportamenti che sarebbero più corretti da tenere con le aziende in fallimento, distinguendo tra quelle che chiudono perché non hanno più mercato e quelle che chiudono i per problemi finanziari: con fallimento ci perdono tutti, creditori e lavoratori ma anche lo Stato che deve erogare sussidi. Forse sarebbe meglio, nei casi in cui il mercato c’è, lasciare all’azienda due – tre anni sabbatici, magari trasferendola a nuovi manager e/o ai lavoratori  stessi: magari i creditori ci perdono lo stesso, ma il lavoro è salvato e lo Stato, anziché perderci, incassa l’Irpef.
Vedo molto critico il percorso che dovrebbe portare le nostre istituzioni ad una maggiore efficienza: lo constatiamo ogni giorno. L’aver sostituito il buon senso (per altro non oggettivamente riscontrabile) con l’iperregolamentazione (oggettivamente riscontrabile salvo illeggibilità) ha creato nel tempo una vastissima e onnipotente burocrazia con potere di “normare”: non cito casi, basta leggere il giornale. Però chi è in grado di semplificare le regole per ridurre i costi di applicazione e di controllo? Forse lo stesso insieme di persone che si vanta di aver creato proprio quelle indispensabili regole che si soffocano? E quando le regole, più semplici e meno costose, richiedano costi di controllo minori e quindi minor personale addetto, che fine fanno le persone in esubero? E poi, chi è in grado di distinguere tra semplificazione e apertura all’ abuso? In quest’area convergono le discussioni sulla Giustizia civile e non, sugli appalti, su permessi ed autorizzazioni, sulla incertezza e sulla variabilità nel tempo e nei luoghi delle norme stesse (cosa che dissuade le persone dall’affrontarle), ecc.
Sarebbe poi interessante, parlando di efficienza delle istituzioni, anche inserire il dibattito sui “diritti acquisiti”. Oggi che non siamo più liberi di batter moneta a piacimento, ci rendiamo conto che alcuni diritti acquisiti legati a fatti oggettivi non possano che essere ribaditi intangibili (es., la pensione di chi ha versato i contributi), mentre altri diritti che costino denaro alla collettività e che discendano da norme arbitrarie possano essere ridiscussi (es., i vitalizi). Forse, all’interno di questo tema, possono rientrare le concessioni (e quant’altro): laddove il concessionario, titolare di un diritto illimitato e poco oneroso, possa lucrare liberamente grazie a libertà di prezzi e di sub-concessione.
Sarebbe interessante esaminare se la legge di stabilità attuale va incontro o no e in che misura alle linee d’intervento delineate e se si pensa che sia efficace ai fini della crescita. Sarebbe interessante capire se esiste una configurazione economica che in situazione di PIL strisciante consenta di abbattere il debito pubblico, o se forse è necessaria la consapevolezza che se vogliamo destinare un po’ di risorse al finanziamento della crescita allora il nostro debito non calerà per molto tempo.
Concludendo per ora queste considerazioni, volendo far aumentare il nostro PIL per poter avere più lavoro, le infrastrutture debbono funzionare, le imprese debbono essere facilitate, la burocrazia deve essere “iper”-semplificata ed essere messa al servizio di imprese e cittadini (e non il contrario), le norme debbono essere stabili o modificarsi a vantaggio del fruitore, la formazione deve poter coniugare gli aspetti culturali, che ci caratterizzano nel mondo, con quelli operativi, che servono alle imprese.

2 -  Ma crescere per andare dove? Qual è la nostra visione del futuro?
Ormai siamo un paese de-industrializzato, e le grandi imprese che davano da lavorare stabilmente a migliaia di persone non torneranno più: si sono sparse per l’Europa e per l’Asia e là resteranno. Similmente i grandi capitali che finanziavano il nostro sistema industriale non ci sono più; i grandi capitali ora sono altrove, negli Stati Uniti, in Asia, ecc. e con la globalizzazione possono andare dove più gli conviene.
La domande da porci sono allora le seguenti.
·         Nell’ipotesi che 1) la globalizzazione perduri ancora sufficientemente, 2) per dare un futuro al nostro paese occorra creare lavoro nel nostro paese e 3) il nostro paese sia diventato intrinsecamente attrattivo per investimenti imprenditoriali, allora, fatte queste ipotesi, si possono prefigurare settori di attività tali da mantenersi attrattivi nel tempo e quindi garantirci un significativo periodo di tranquillità economica?
·         Esistono settori di attività che, radicati nel nostro territorio ma che hanno come mercato il mondo, continueranno ad avere solo nel nostro territorio ragione di esistere e quindi non potranno essere rilocati altrove?
·         Abbiamo noi risorse strategiche che siano solo nostre e che siano appetibili sul mercato mondiale (e che possano giustificare investimenti ed occupazione duraturi) e che quindi debbano essere particolarmente tutelate e incoraggiate, anche con facilitazioni e finanziamenti in ricerca e sviluppo, perché “di interesse nazionale”?
Oggi già si stanno delineando alcune risposte, altre potrebbe essere interessante identificarne e capire come proteggerle.
Però, se ci si interroga sul dove investire, occorre prima interrogarsi su che cosa, nell’economia ormai globalizzata, il mercato del mondo vorrà comperare alla bancarella Italia perché quello gli interessa e solo da noi lo trova? E prima ancora occorre chiedersi: che cosa il mercato del mondo nel prossimo futuro cercherà? Ma come vivrà il mondo del futuro prossimo e di che cosa potrà aver bisogno?
Ecco che qui serve capacità di visione e su questi temi occorre confrontarsi.
Formulo esempi di ragionamento: continuando le economie emergenti ad emergere a tassi di crescita per noi utopici, la massa di persone facoltose continuerà a crescere di numero. Pertanto tutto quello che è identificabile come “lusso” avrà sempre mercato: moda, arredo, agro-alimentare, turismo: questi sono fronti in cui creatività, capacità esecutive, tecnologia, cultura non ci mancano e possiamo combattere con successo.
Un altro esempio: la fabbriche di prodotti di massa sono altrove, ma i prodotti di massa possono necessitare di componenti speciali. Componentistica specializzata e macchine industriali saranno dunque sempre necessarie alle fabbriche del mondo: qui inventiva e capacità realizzative si sono già affermate e continueranno ad esserlo presumibilmente a lungo, se l’intero settore saprà tenersi sempre aggiornato.
Un altro esempio, doppio per amor di sinteticità: l’Europa, che è un continente con sviluppo geografico sull’asse est-ovest, ha fame di energia ma non ha risorse e vedrà moltiplicarsi sempre più le interazioni tra i suoi cittadini. Potrà l’Italia aver benefici dal diventare un hub per il trasporto di energia (rigassificatori, TAP) e persone (TAV e quant’altro), con importanti ricadute occupazionali?
Forse anche i settori delle nanotecnologie e delle bioplastiche potranno essere promettenti, ma se l’attenzione è sulla quantità di lavoro che potranno creare, occorre considerare la dimensione del relativo mercato e la non imitabilità delle proposte. Per questi motivi ritengo che il mercato dei droni, delle stampanti 3d, della applicazioni software, su cui è comunque necessario essere presenti per mantenere e sviluppare le relative conoscenze, non garantiscano importanti volumi di lavoro: ormai questi settori vedono produttori in tutto il mondo e quindi (a meno che non vi si inventi qualcosa di utile e difficilmente imitabile) non penso che porteranno da noi grandi volumi di lavoro.
Ci sono poi punte di eccellenza, e guai se non ci fossero perché fanno anche da traino per tutto il resto: nell’aerospaziale, nella robotica, nell’energie rinnovabili. Ma riusciranno questi settori, (o altri) su cui la presenza è indispensabile, a generare significativi volumi di lavoro?
Riusciamo a pensare quali azioni potranno essere svolte per fronteggiare l’impatto sulle nostre economie dei conflitti in medio oriente e delle guerriglie in Africa? Noi sappiamo che molti conflitti in Africa sono alimentati dalla competizione per l’accaparramento di materie prime. Possono essere individuate politiche da seguire per fronteggiare queste situazioni?

 3 -  Una riflessione finale, che è poi anche iniziale
Ai ponti gettati sul futuro occorre comunque garantire una base efficace e coerente. Non si può vendere all’estero senza un adeguato sistema comunicativo e finanziario di supporto. Non si può puntare su un turismo dall’estero di massa se alla prima occasione in merito, l’Expo, si scopre che persone straniere conosciute occasionalmente non ne sanno niente, se si legge che gli alberghi hanno moltiplicato i prezzi (come se un cittadino straniero sentisse l’obbligo di visitare l’EXPO e quindi fosse disposto a pagare qualunque cifra), disincentivando i tour operator, se si viene a sapere che le nostre eccellenze culturali non sanno erogare, coordinandosi con chi di dovere, servizi di trasporto, di ospitalità e di fruizione decenti. La nostra comunità nazionale, sfilacciata in innumerevoli centri decisionali e costellata di tabù intoccabili, sembra proprio che non riesca a far “sistema” a causa di incapacità, gelosie e miopie.

4 -  Conclusioni
In questo breve testo, ho posto diverse questioni, nella speranza che la ricerca di risposte, a queste come a mille altre domande, possa portare a migliori consapevolezze e, col tempo, a risposte efficaci da parte di chi ha il potere di trovar soluzioni e dar risposte.

Giorgio Calderaro


12 commenti:

Antonio ha detto...

Ciao Roberto,
vorrei esprimere un pensiero sul da farsi. Il Governo ha molta attenzione per gli imprenditori, definiti eroi, e perle sorti delle imprese in difficoltà, il che è giusto. Come si dice nell'articolo, questo però non basta perchè occorre una forte visione per risalire la china. Forse sarebbe opportuno che il Presidente del Consiglio chiamasse a raccolta le forze migliori del mondo imprenditoriale, magari creando un organismo consultibo, per avere da esse idee e iniziative utili a elaborare un pensiere alto sul ruolo dell'Italia nella competizione globale.
Complimenti a te per le sempre interessanti pubblicazioni ed all'autore di questo vivace e utile post.

Antonio

roberto ha detto...

La tua mi semba una bella idea. Sono anch'io convinto che gli imprenditori, essendo coloro che creano, fra l'altro, le opportunità di lavoro, dovrebbero contribuire alla definizione della strategia del Paese in campo economico, senza buttarsi in politica ma continuando a fare il loro mestiere, di cui c'è grande bisogno.
Grazie.
Roberto

Laura Banchelli ha detto...

Grazie , molto interessante e. ..preoccupante.

roberto ha detto...

Certo, il quadro non è roseo ma è facendo circolare chiare analisi e buone idee che si può contribuire all'auspicato rilancio del Paese.
Ciao. Roberto

Franco Trotta ha detto...

Condivido la necessità di individuare e valorizzare le eccellenze del made in Italy per competere in un mondo globalizzato. Bisogna però anche investire in settori che eccellenze non sono ma nei quali abbiamo un enorme potenziale e che possono creare numerosi posti di lavoro. Mi viene in mente anzitutto il turismo: siamo il Bel Paese, ma spesso non sappiamo accogliere adeguatemente i turisti e ci facciamo superare da Paesi meno dotati di risorse artistiche e naturali.
Un altro settore chiave è quello della tutela del territorio, per prevenire gli enormi danni che il dissesto idrogeologico sta arrecando a tutta l'Italia.

Franco

Dario Lodi ha detto...

Interessante, ma mi sembra si continuino a ignorare i fenomeni iniziali:

. i titoli tossici

. la globalizzazione

Detta alla buona, i titoli tossici americani hanno tolto liquidità alle banche e guadagni agli speculatori iniziali. A questo punto, gli speculatori iniziali (sopra gli istituti finanziari) si sono rivolti alla globalizzazione del mercato, sfruttandone le possibilità elementari (senza alcuna preoccupazione governativa). In poche parole, hanno trasformato i Cinesi in schiavi e i Paesi europei dell’Est in satelliti, facendo fallire le aziende produttrici dell’Europa “ricca”.

Il sistema, ma è così da sempre, non ha sofferenze in “testa”, mentre le ha le solite in “coda” (sopravvivenza). Il ceto medio sta conoscendo la sofferenza e rischia il fallimento a sua volta: sarebbe una tragedia per la fine delle risorse da impiegare dal neoliberismo per muovere l’intero meccanismo.

La cosiddetta ripresa altro non è che un modo per dire che è indispensabile trovare come mantenere le classi sociali deboli e indebitate dal sistema. L’Europa vive da tempo al disopra dei propri mezzi. Ora si trova con la nuova penalizzazione delle manovre da parte della finanza mondiale che di fatto rende marginale il Vecchio Continente. Che non è stato capace di difendersi. Figuriamoci l’Italia, paese moribondo come idee, gravato da un parassitismo secolare e da una politica di dilettanti (sinistra, destra e centro, più Grillo).

La ripresa non può avvenire in questo momento. In questo momento occorre un cerotto. Il cerotto è il lavoro pubblico, non essendo pensabili manovre doganali. Rimettersi a produrre cose che producono i Cinesi è una follia e, per la sperequazione civile fra Asia ed Europa, ovviamente a favore dell’Europa, è impensabile qualsiasi art. 18 riveduto, qualunque licenziamento facile (caro Ichino non hai mai lavorato seriamente e non sai della inesistenza di infrastrutture come quelle danesi: che c’entriamo noi con la Danimarca, paese di sogno?).

C’è da sperare in una ribellione alla schiavitù da parte dei Cinesi; il vero pericolo per l’Occidente (parlo di società nel suo insieme, non degli asociali che la spremono in tutti i modi) è rappresentato da 800 milioni di Cinesi che lavorano come matti con mezzi moderni. Essi sono in grado di risolvere i fabbisogni di tutto il mondo. Se si ribellano, chiedendo più welfare, lasciano spazio agli altri.

A quel punto, si vedrà dove la finanza andrà a parare o se nascerà finalmente un umanesimo veramente umanitario. Sia come sia occorrono almeno dieci anni per vedere un serio cambiamento. Intanto? Per noi l’unica strada sono i lavori pubblici più che un reddito di cittadinanza (che comunque darei).

Perdona la drasticità e la rozzezza.

Ciao,

Dario



roberto ha detto...

Rispondo a Franco:

Anche nel post si fa riferimento alle criticità presenti nel settore turistico ed alla sua importanza strategica per un Paese come l'Italia. Credo che siamo tutti d'accordo su questo punto.
Il secondo tema che tu poni all'attenzione, quello dela prevenzione ambientale, è essenziale per tutelare non solo la vivibilità e la sicurezza del nostro territorio, ma anche le attività economiche, che i disastri ambientali mettono a repentaglio: il rapporto fra sicurezza ambientale e turismo è, in questo quadro,particolarmente forte.
Ciao.
Roberto

roberto ha detto...

Rispondo a Dario:

Che la speculazione dei grandi potentati finanziari sia alla base del disastro economico e sociale iniziato nel 2008 è indubbio, così come gli effetti altrettanto disastrosi di una globalizzazione selvaggia che ha portato, come tu dici, da un lato alla "schiavizzazione" di larghe masse di lavoratori soprattutto asiatici, e dall'altro all'impoverimento delle classi medie occidentali. Il quadro è aggravato dal fatto che i "rimedi" adottati, soprattutto da USA e Giappone, con i famosi "quantitative easing" cioè l'utilizzo di risorse monetarie illimitate, finanziate a debito, comportano rischi sistemici elevatissimi e non è detto che funzionino: il Giappone, malgrado la massiccia iniezione di liquidità nel sistema economico che ha portato il debito pubblico ad oltre il 200% del Pil, è entrato nuovamente in recessione e gliUSA, malgrado le ancor superiori risorse investite, stentano a decollare.
On questo contesto i tuoi dubbi sulle possibilità di ripresa sono certamente fondati così come i limiti di un'azione solo nazionale per uscire dal guado.
In ogni caso con la globalizzazione dobbiamo fare i conti, come italiani e come europei, che non vogliamo perire
Detto questo, va bene puntare a investimenti pubblici per rilanciare il sistema ma c'è il problema delle risorse che l'Europa fatica a mettere a disposizione e che la nostra mano pubblica non può creare facendo nuovo debito perchè ci porterebbe alla rovina definitiva.
Puntare sulla capacità di attrarre investitori stranieri, oltre che sulla valorizzazione dell'imprenditoria nazionale, è quindi importante: i casi Alitalia, acciaierie di Piombino, acciaieria di Terni indicano che il saper fare italiano è apprezzato nel mondo. Anche la scelta di Marchionne di far produrre a Melfi il marhio Jeep, che sta mietendo clamorosi successi in USA e in Asia ed ha portato all'indicazione di Marchionne come Manager mondiale dell'anno 2014 per il settore automobilistico,, è una conferma in tal senso.

Ciao.
Roberto


roberto ha detto...

Segnalo l' interessante articolo di Dario di Vico a pag 1 e 30 del Corriere della Sera di oggi 2 dicembre dal titolo "Reti d'impresa: se l'Italia fa scuola" che contiene, nell'occhiello di pag. 30. la seguente affermazione: "Per produrre occupazione e aummentare la competitività occorre anzitutto far crescere le dimensioni delle aziende. Un piano italiano d'incentivi ( a costo zero) potrebbe ora farsi strada anche in Europa". L'articolo parla di un'interessante iniziativa volta a stimolare la creazione di nuove reti per sviluppare sinergie senza far venir meno l'autonomia di ciascuna impresa e la flessibilità del sistema.
E' un articolo che consiglio di leggere.

Roberto

Fausto ha detto...

Caro Roberto,
Per tornare a crescere, l'Italia deve assolutamente rivitalizzare la propria industria. In assenza di ciò' il turismo e gli altri servizi, infatti, non saranno sufficienti a sostenere l'attuale remore di vita.Le premesse esistono, una combinazione di riforme del mercato del lavoro ed aumento della produttivita', investimenti pubblici e privati sono fondamentali. La vecchia dicotomia lavoro a vita / precariato deve essere superata. Per riformare le finanze pubbliche il paese deve contemplare l'incremento delle tasse sulla casa ed una patrimoniale una tantum potrebbe servire allo scopo. Il nostro paesedeve abbracciare la globalizzazione, con tutti i suoi limiti, ovvero optare per un modello di sviluppo più' protetto o rischia di affossarsi definitivamente.Il premier RENZI invece di affrontare le cause profonde del malessere economico italiano, accusa i tedeschi e l'Europa. Renzi segue una oramai vecchia logica: il debito e' meglio della stagnazione e nel tempo il problema del l'eccesivo indebitamento sarà' risolto dal ritorno alla crescita. Se tutto ciò' fosse vero il nostro paese dovrebbe crescere a ritmi asiatici, ma al contrario il nostro debito ha raggiunto il 145,5 percento del PIL e il tanto auspicato boom economico non si è' visto. Servono scelte pesanti ed impopolari data la scarsa fiducia degli italiani nel futuro del loro paese, confermata anche dalla emigrazione giovanile e dalla fuga di capitali.

roberto ha detto...


Caro Fausto,
sono d'accordo con te sulla necessità di rivitalizzare l'industria e sull'impossibilità di mantenere il nostro tenore di vita solo con i servizi. D'altronde, anche se abbiamo perso terreno in vari settori, siamo pur sempre la seconda manifattura d'Europa, dopo la Germania, e ciò è una buona base su cui costruire. E' molto interessante, al riguardo, la notizia riportata oggi dagli organi d'informazione, della nomina di Andrea Guerra, ex numero uno di Luxottica, a consigliere personale non retribuito di Renzi per le strategie industriali Ciò conferma la volontà del Premier di avvalersi del contributo degli imprenditori per il rilancio dell'industria e non solo. Sembra quasi che Renzi abbia ascoltato il consiglio dato nel primo commento a questo post.
Sono d'accordo anche sulla pericolosità dell'approccio "il debito è meglio della stagnazione" per le ragioni che hai detto, cioè che il tasso di crescita (che ancora non c'è) non potrà essere comunque in grado di ripianare l'immenso debito pubblico e concordo anche sulla necessità di misure impopolari.

Roberto

Unknown ha detto...

Con riferimento all'ultimo commento di Fausto (che saluto anche se non conosco), vorrei far presente che il peso della crisi si è scaricato tutto sulla parte debole della classe media, che ancora forse ha risparmi e case. Parlare di patrimoniale in questo momento, dopo tre anni di recessione e con un futuro incerto, mi sembra un suicidio politico e sociale; i soldi vanno trovati invece garantendo ritorni economici agli investitori privati o istituzionali, senza continuare a pescare nelle tasche dei soliti inermi noti.

Giorgio