Dopo l'articolo riporto una dichiarazione del neo Sindaco mussulmano di Londra che segnala una diversa prospettiva e cito un' importante iniziativa delle comunità mussulmane in Italia che va nella stessa direzione. Una situazione in chiaroscuro su cui riflettere e lavorare.
Bruxelles, com’era
Nell'arco di una o due generazioni si è consumata
una rottura totale, drastica. Prima ancora che apparissero la jihad e le
cellule del terrore. Il cambiamento è accaduto in una parte della comunità
islamica proprio mentre il Belgio migliorava: sì, diventava meno razzista del
Paese in cui ero cresciuto, molto più aperto verso le culture d'origine, le
lingue e i costumi del mondo maghrebino. Al tempo stesso una parte crescente
dell'immigrazione islamica cambiava atteggiamento verso di noi. Nella mia
memoria l'inizio di quel capovolgimento coincide con la "rivoluzione"
di Khomeini in Iran, l'instaurazione di una teocrazia sciita che denuncia
l'Occidente come civiltà decadente, immorale, corrotta e peccaminosa. Altri
meglio di me possono spiegare la storia di quegli eventi e di vicende parallele
nel mondo islamico sunnita. Quello che a me rimane impresso, è un
"prima" e un "dopo". Da un certo momento in poi tanti
immigrati musulmani hanno deciso che non vogliono integrarsi. Lo strappo non ha
equivalenti nel-le comunità d'immigrati italiani, o d'immigrati ispanici oggi
negli Stati Uniti, dove vivo. Tanti islamici hanno cominciato a pensare che la
loro è una civiltà superiore, che non hanno nulla da imparare, anzi devono
evitare ogni contaminazione con noi. È diverso dall'attaccamento alle
tradizioni, sempre vivo in tutte le diaspore di italiani o ebrei, cinesi o
messicani, da sempre gli immigrati cercano di salvaguardare la propria
identità. Ma un'altra cosa è sentirsi superiori. E al tempo stesso covare
risentimenti, rancori, recriminazioni. Questo giacimento di vittimismo esiste
in un vasto mondo islamico, anche moderato. È il terreno di coltura per i
predicatori della Jihad. Gli immigrati italiani nella Bruxelles della mia
infanzia e adolescenza, anni Sessanta e Settanta, erano dei combattenti.
Cercavano dei sindacati per difendere i propri diritti. Si organizzavano nelle
sezioni estere del Partito comunista o delle Acli (Associazioni cristiane). Volevano,
in fondo, migliorare il Belgio. E ci sono anche riusciti. In quanto a Muhammad,
la sua generazione si è integrata meglio di quanto si creda. Perché lo voleva.
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In una
recente intervista il nuovo sindaco di Londra
Sadiq Khan ha dichiarato “ Puoi
essere occidentale e di fede islamica. Le due cose sono compatibili.
Io sono britannico di estrazione pachistana, sono europeo, sono un uomo
asiatico, sono un londinese, sono un
avvocato, un padre, un marito, un tormentato tifoso del Liverpool. Sono anche di
fede islamica. Abbiamo tutti molte
identità”. Al di là di questa pur significativa dichiarazione, la sua
elezione a Sindaco della maggiore e direi più evoluta metropoli europea è un
segno ben preciso e simbolicamente
potente di una possibile convivenza fra Occidente e Islam.
Un
altro significativo segnale in questa direzione viene dall’Italia dove, alcuni giorni fa, la Confederazione
islamica italiana, cui aderiscono oltre 300 moschee e che è quindi
rappresentativa di questa comunità, ha avuto un incontro con autorità italiane,
la CEI, Il rabbino capo della comunità
ebraica di Roma , alla presenza del
Ministro per gli affari religiosi del Marocco, in vista di un’intesa con lo
Stato italiano che potrebbe essere favorita dalla prossima vista del nostro
Premier in tale Paese e che è fondata sull'adesione ad una condivisa "carta dei
valori"
Questi
segnali positivi non possono oscurare i problemi derivanti dalla componente
radicale dell’Islam ,che comporta gravi rischi anche per l’Italia, ma indicano una
prospettiva di integrazione che è possibile costruire con il contributo delle comunità islamiche
disposte ad accettare i principii fondanti della cultura
occidentale.
9 commenti:
Ciao Roberto,
Ho letto. La testimonianza di Rampini è interessante, per quanto legata ad esperienze strettamente personali.
Lo spunto del tuo articolo mi pare quello di stimolare una riflessione sulla compatibilià/incompatibilità delle religioni oppure dei movimenti popolari di matrice politica. In fondo basta pensare alla pacifica convivenza di cristiani e musulmani nei balcani, sino a quando l'equilibrio non si ruppe nel Kosovo.
Aggiungerei che la distanza tra il Cristianesimo ortodosso delle origini e l'Islam esiste, ma non sarebbe poi così radicale nel concreto: se la nostra società vivesse oggi secondo i canoni del cristianesimo di secoli fa non saremmo molto diversi dai musulmani.
Le religoni sono un comodo strumento di manipolazione politica : lo fu il Cristianesimo, lo fu e lo è ancora l'Islam.
Il racconto di Rampini ci parla di un mondo islamico non politicizzato, capace quindi di convivere con quello cristiano, e di un mondo islamico successivo che a un certo punto prende le distanze e si radicalizza, esprimendo una valenza politica fondata su un credo religioso.
Il problema di fondo, a mio avviso, risiede nell'origine dei popoli, che non muta nelle persone che si trasferiscono all'estero. Il sentimento di identità ed appartenenza legato alla loro storia, lingua e cultura, resta. Quando questa appartenenza comincia a mostrare differenze sempre più marcate con la cultura del mondo occidentale, vincente sul piano dello sviluppo, inizia a prodursi il senso della frustrazione e della sconfitta, dell'emerginazione, che può soltanto produrre una reazione di chiusura e rivalsa.
Era prevedibile questo tipo di sviluppo? Secondo me si, ed è stato un grave errore permettere una crescente immigrazione di popolazioni provenienti da quella cultura nel continente europeo. Neppure l'immigrazione di altri popoli è esente da questo tipo di problema, ma in misura minore e senza che sia possibile utilizzare lo strumento religioso per giustificare e legittimare un movimento politico.
Il problema islamico esiste e prescinde dalla presenza di islamici sui nostri territori, presenza che però costituisce un elemento destabilizzante al loro interno, ed è destinato a durare, perchè non si intravvede nel breve periodo un accorciamento della distanza culturale e di sviluppo di questi popoli.
Questo il mio pensiero.
Ciao.
Franco
Ciao Franco,
condivido le tue riflessioni sull'uso politico delle religioni che è statolargamente praticato in passato nel continente europeo e che è tuttora assai forte nel mondo islamico. La diversità attuale fra le due realtà deriva dal distacco che è stato operato in Europa fra Religione e Stato e che invece manca nel mondo islamico.
Questa separazione, se avverrà, sarà comunque una soluzione di lungo
periodo.
Al momento attuale è necesssario fare i conti con le forti ifferenze
culturali esistenti che, come emerge dall'articolo di Rampini, sono state notevolmente ampliate dalla propaganda radicale. E la colpa dell'Europa è stata quella di non governare il fenomeno, lasciando crescere il bubbone fino a che non è anfato in suppurazione.
Ora bisogna intervenire verificando con estrema attenzione la reale
disponibilità di chi in modo più o meno ufficiale rappresenta le comunità musulmane ad accettare opportune regole di convivenza e poi dando un supporto che permetta di prosciugare il terreno in cui si sviluppa la radicalizzazione.
Avere dei dubbi sulla riuscita dell'operazione è più che legittimo, ma provarci si deve.
Ciao.
Roberto
Si Roberto, ormai c'è poco da scegliere se non quello che descrivi.
Aggiungo però che, mentre da un lato possiamo intervenire sui musulmani già presenti in Europa, non possiamo farlo su quelli che risiedono fuori dall'Europa, e sono la stragrande maggioranza, sparsi nei continenti, ed interconnessi oggi da Internet.
Perciò sarà come cercare di svuotare il mare con un ditale, visti i rapporti numerici.
Il minimo, dal mio punto di vista, è impedire ulteriori afflussi di musulmani in Europa, cercando di avere in questo anche l'appoggio, difficile, proprio dei musulmani europei. Quando mi capita di sentirli parlare, però, non mi pare che abbiano una consapevolezza della loro diversità e quindi della loro oggettiva difficoltà di inserimento.
Franco
Fermare del tutto i flussi migratori non mi pare possibile né conveniente data l'esigenza dell''Europa di rimediare al suo strutturale deficit demografico. Ma certo non possono essere stimolati senza sapere come gestire il fenomeno: l'improvvido "avanti, c'è posto per tutti" della Merkel che ha poi costretto ad un improbabile accordo con la Turchia per contenere gli arrivi ed ha alimentato la chiusura delle frontiere da parte di numerosi Paesi del nostro continente, è un errore che, come europei, non possiamo più permetterci.
Nel quadro d'incertezza esistente, va segnalata in positivo 'iniziativa italiana del "migration compact", che finalmente propone di non lasciare agli egoismi nazionali la questione ma di affrontarla nell'ottica complessiva dell'Unione e di adottare un approccio strategico al fenomeno.
Se son rose........
Ciao.
Roberto
Probabilmente non si può arginare il fenomeno nel suo complesso, ma si può disciplinarlo, scegliendo con cura chi far entrare e chi no.
Credo che sia legittimo poter decidere chi può entrare a casa nostra e chi no. I criteri di ammissibilità possono essere diversi. Oltre al criterio dell'ospitalità ai profughi di guerra (che dovrebbe essere, in sè, a termine) servono criteri di ammissibilità anche su base di professionalità e cultura di provenienza. Questo implica "discriminare", brutta parola che si presta ad abusi, ma l'alternativa sono le porte spalancate.
E' vero che in Europa esiste un problema demografico, ma porlo implica dire che se la popolazione di un paese non cresce quel paese non può sopravvivere, cosa in sè assurda, perchè la produzione di ricchezza non dipende soltanto dai numeri della popolazione attiva, ma anche dalla qualità del lavoro che svolge. Non dimentichiamoci che, immigrati a parte, noi non riusciamo ad impiegare tutta la forza lavoro che abbiamo, giovane e non più giovane.
Allora, abbiamo bisogno di altra forza lavoro? Questo del calo demografico è un altro dei luoghi comuni in voga per giustificare una necessità di immigrazione. Ma che lavoro svolgono poi gli immigrati? Piccoli esercizi commerciali, che si dividono la magra torta di quel mercato, venditori ambulanti, muratori in un mercato edilizio mai più destinato a decollare, badanti per la popolazione più anziana, nuovi schiavi nei campi, ecc, ecc.
Poi, magari, anche laureati, che paradossalmente trovano un lavoro che ad italiani con qualifiche analoghe viene negato.
Insomma, quale contributo reale dà al Paese "questa" immigrazione? Da noi non arrivano tecnici qualificati in massa, investimenti esteri e maestranze di alto livello capaci di stimolare una crescita economica vera, basata sui fondamentali.
E poi resta sul tappeto il problema culturale dei migranti, inteso come cultura di provenienza, che aumenta il già pesante fardello di distanza culturale endemico nel nostro paese per la distanza nord sud, foriero di un ulteriore calo della coesione sociale.
Il migration compact altro non è che la proposta di amici liberali a cui ho partecipato anch'io, denominata "common borders", volendo con questo significare che l'Europa, se tale è, deve avere un solo confine condiviso, sui quattro punti cardinali, e che tale confine va gestito assieme, non dai soli paesi confinanti, suddividendosi costi e responsabilità, respingimenti ed accoglienza. Principi disattesi, sino ad ora, e che continueranno ad esserlo sino a quando non verrà cancellato il trattato di Dublino.
Ciao.
Franco
Sono pienamente d'accordo sulla necessità di disciplinare il fenomeno, anche facendo scelte selettive per quanto concerne i migranti economici.
Naturalmente la politica dell'accoglienza deve tener conto delle opportunità di lavoro, attualmente scarse, anche per evitare i fenomeni di rigetto che si sono manifestati in vari Paesi europei, di cui le recenti votazioni per la Presidenza in Austria sono l'indicatore più eclatante.
Se non si vuole il trionfo delle posizioni più populiste è necessario che il tema dell'immigrazione sia gestito "con la testa sul collo".
Mi complimento con te per la tua partecipazione al "migration compact" e concordo sulla necessità di superare il Patto di Dublino, ormai anacronistico.
Grazie dei tuoi sempre stimolanti contributi.
Roberto
Ho vissuto a Bruxelles dal 1984 al 2003, quasi trent’anni, e vi sono arrivato dieci anni dopo la partenza di Rampini. La sua descrizione della Bruxelles d’antan non fa una grinza e descrive bene la mutazione di una popolazione che da timida ospite in cerca di lavoro e di integrazione si stava avviando a divenire una comunità impermeabile ad ogni suggestione di convivenza, non parliamo di integrazione. Nella seconda metà degli anni ’80 la mutazione era in corso non era percepibile da chi non viveva a contatto con la gente dei quartieri arabi; qualche segnale poteva essere avvertito ma sottovalutato a livello individuale e totalmente ignorato dai media: la donna delle pulizie che lavorava nel mio ufficio mi confidava di essere grata ai belgi di averla sempre aiutata ma che l’imam della moschea aveva proibito alle donne di parlare ai “cristiani”. A partire dagli anni ’90 la trasformazione di una comunità mugugnante in comunità ostile è divenuta evidente a chiunque, salvo che alle autorità e ai partiti, tutti presi da una fuga “buonista” in avanti incoraggiata dai governi socialisti dei Di Rupo e compagnia. I belgi sono simpatici: bon vivants, pacifici e amanti della quiete, bellicosi solo quando sono coinvolti nelle contese linguistiche. Proprio il loro amore del quieto vivere gli ha impedito di ribellarsi ai dichiarazioni dei loro capipopolo mussulmani che inneggiavano apertamente alla ribellione e all’odio, ai discorsi elettorali dei tanti candidati dalla “faccia pulita” alle elezioni locali e regionali che affermavano con forza che l’Islam era in marcia e avrebbe conquistato tutti i posti di comando in Belgio, agli atteggiamenti ostili e irridenti delle bande di giovani che a tarda sera spadroneggiavano per tutta la città e soprattutto nel centro “bene”, Grand’Place compresa. Poi è successo quel che è successo e qualcuno ha avuto la faccia tosta di meravigliarsi: ma fatemi il piacere!
(il testo prosegue nel successivo commento)
Bruxelles è stata il terreno di coltura del nuovo islamismo fondamentalista, razzista e revanscista; in Francia è lo stesso e in Gran Bretagna ancor peggio, qualunque cosa ne dica il sindaco di Londra; il quale sindaco se e in buona fede è un ingenuo inadatto a fare il sindaco: Londra è una Bruxelles in grande, e numerose città dell’Inghilterra e della Scozia sono ormai diventate focolai di rivolta e di odio.
Sappiamo bene che non tutti i mussulmani, arabi e neri, sono di questo genere: ce ne sono moltissimi venuti in Europa in cerca di benessere, di rifugio, di vita pacifica; ma non sono loro che contano. Quelli che contano sono i tanti, tantissimi violenti, facinorosi, idealisti non importa se in buona o cattiva fede, fra i quali si annidano le cellule terroriste. Sono una massa intrisa d’odio e impermeabile al dialogo, quella che è il fer de lance della conquista del mondo “infedele”. E’ verissimo che non bisogna fare confusioni e comportarsi con tutti allo stesso modo, ma è tempo (ammesso che non sia troppo tardi) di distinguere chi è disposto a convivere da chi ha già cominciato a combatterci. Mi fa paura la quinta colonna di quelli che continuano a predicare il buonismo a 360 gradi.
La tua testimonianza è molto interessante perché conferma sostanzialmente la diagnosi di Rampini sull’involuzione avvenuta a Bruxelles ed aggiunge opportune considerazioni su ciò che è analogamente e parallelamente avvenuto in altre città europee.
Come ho già avuto modo di dire in un precedente post, il problema di fondo è, a mio avviso, che le autorità, anche a causa di accordi come quello fra il Re Baldovino del Belgio e Re Feisal dell’Arabia Saudita che davano mano libera ai predicatori oltranzisti in cambio di petrolio, hanno fatto finta di ignorare ciò che stava accadendo. Solo dopo gli attacchi di Parigi ci si è resi conto che la situazione era andata fuori controllo e che bisognava porre termine al colpevole lassismo.
Come tu giustamente dici “non bisogna fare confusioni e comportarsi con tutti allo stesso modo, ma è tempo (ammesso che non sia troppo tardi) di distinguere chi è disposto a convivere da chi ha già cominciato a combatterci”. Il punto è proprio questo ed è necessario che la pubblica opinione segua con grande attenzione ciò che le autorità nazionali ed europee faranno e faccia sentire la propria voce al riguardo.
Su un altro piano,mi sembra opportuno evidenziare il positivo segnale che viene dall’incontro recentissimo del Papa con il Grande Iman della Moschea cairota di Al Azhar, massima autorità religiosa dell’islam sunnita, che esprime il comune rifiuto della violenza radicale e che toglie ogni alibi religioso alla stessa.
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