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venerdì 9 maggio 2014

Dove va la sinistra



Pubblico un articolo di Lorenzo Borla, autore della Newsletter di politica ed economia “Zibaldone”, che mette a fuoco il cambiamento in atto nell’atteggiamento del  mondo progressista circa il ruolo dell’imprenditore e dell’impresa nella società. Tale revisione comporta il venir meno di uno dei tabù che hanno da sempre caratterizzato il rapporto fra datori di lavoro e prestatori d’opera ed apre la strada  ad una dialettica costruttiva, capace di vedere tutte le forze produttive impegnate, nel  rispetto dei rispettivi ruoli ed interessi, per  favorire un’appropriata crescita economica, che è la premessa inderogabile per l’attuazione delle politiche redistributive che i progressisti perseguono.

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Da sempre, nella storia della sinistra, c’è stata la contrapposizione frontale fra padroni e lavoratori: in linguaggio marxista, “la lotta di classe”. Sebbene lo stesso Marx abbia celebrato alcuni aspetti del capitalismo per la sua carica innovativa, ne ha condannato la condizione esistenziale, ovvero lo sfruttamento dei lavoratori da parte dei padroni. 
Nella visione della sinistra (non necessariamente quella ottocentesca, perché è sopravvissuta almeno fino a Fausto Bertinotti) il padrone non è un dato variabile; è collocato lì, nel suo ruolo, come una figura emblematica, fissa e immutabile: appunto “il padrone”. Della sua condizione di padrone non gli vengono riconosciuti meriti. La storia personale che lo ha portato a quella condizione, non interessa, salvo dare per scontato che il suo è stato un cammino segnato dalle lacrime e dal sangue dei lavoratori. Ora, secondo questa logica, siccome è uno sfruttatore, dal padrone bisogna estrarre il maggior valore possibile da ridistribuire ai lavoratori. E ciò perché per definizione il padrone è “ricco” e tiene i cordoni della borsa. Il che generalmente è vero. Che poi ci siano imprenditori che falliscono e finiscono in povertà peggio che i loro operai; che ci siano padroni che commettono suicidio perché non hanno più soldi per pagare i dipendenti, per i Fausto Bertinotti non è significativo, né rilevante.

Veniamo all’oggi, hic et nunc. Dal 2007 al 2013 sono stati persi in Italia, circa un milione di posti di lavoro, quando il tasso di occupazione (gli occupati rispetto alla popolazione in età di lavoro), soprattutto femminile, era già, in Italia, il più basso d’Europa. Non parliamo poi della disoccupazione giovanile che, secondo i dati ufficiali, comprende una larga fetta dei giovani (almeno il 40%) sotto i 25 anni che vorrebbero lavorare. Questa situazione ha fatto diventare il problema dei posti di lavoro assolutamente prioritario per qualsiasi governo. Ma come si creano posti di lavoro? Cominciamo col dire che il settore pubblico ha fatto la propria parte. Stato, Regioni, Province, Comuni e altri enti pubblici hanno dato: sono di regola saturi di personale, utile e inutile, dal momento che il principio non era assumere chi serviva, ma assorbire disoccupazione. La differenza rispetto al passato è che gli enti citati non hanno più soldi, e quindi capacità di assumere. La stessa cosa vale per le migliaia di società controllate dal settore pubblico che hanno fatto la loro parte, per quanto riguarda le assunzioni, ma di soldi ne perdono invece di guadagnarne (pare 22 miliardi l’anno in totale).  E queste perdite devono essere periodicamente ripianate dagli enti che le controllano coi soldi dei cittadini. Insomma, anche qui non c’è più trippa per i gatti.

A questo punto, va notato che una flebile presa di coscienza sembra essersi fatta strada negli ultimi anni, anche da parte della sinistra. I posti di lavoro, esaurita la finanza pubblica, li può creare soltanto l’impresa privata (tertium non datur). Se non c’è l’iniziativa; se non c’è una ispirazione, una vocazione, una passione, un progetto, se non c’è l’assunzione di un rischio economico; non si creano imprese private e quindi non si creano posti di lavoro. Allora, forse, l’imprenditore non è più quella maschera trucida che si vede disegnata nei giornalini socialisti di fine ‘800; il padrone non è più un nemico da spremere; bensì diventa un interlocutore, una figura con cui bisogna fare i conti e di cui bisogna anche comprendere i meriti e le ragioni. La prima delle quali è semplice: se non c’è la cosiddetta iniziativa privata, non c’è l’impresa e quindi non c’è il lavoro. La seconda è che, se l’azienda non fa profitto, se fatica a stare sul mercato, prima o poi esce dal mercato; e che l’imprenditore, così come il meno pagato dei suoi operai, lavora in definitiva anche per guadagnare denaro. A maggior ragione vuole guadagnare denaro l’azionista che investe nella azienda senza lavorarci dentro. Questa è la realtà di cui prendere atto. Se non c’è la remunerazione, se non c’è il plusvalore di cui “il capitalista si appropria”, non c’è l’impresa.

Allora, una sinistra consapevole di questo quadro non invoca più l’intervento dello Stato sempre e comunque, come faceva “Fausto Bertinotti”. Se lo Stato intervenisse sempre e comunque si avrebbe una società comunista, che purtroppo, come la storia insegna, produce povertà e non ricchezza. Il compito della sinistra in Italia è anzitutto quello di avere uno Stato che funziona in modo efficiente; uno Stato che fornisce buoni servizi; uno Stato che favorisce le imprese, specie quelle estere che si vogliono installare in Italia, e non le ostacola con una assurda e inerte burocrazia, con tasse sul lavoro che sono le più alte al mondo. Lo Stato non produce ricchezza: la consuma. Senza impresa (privata) non c’è ricchezza; e quasi nessuno purtroppo è in grado di vivere una povertà felice.

Lorenzo Borla


7 commenti:

Umberto ha detto...

Caro Roberto,

Ottime le riflessioni di Lorenzo Borla: ha centrato il problema. Matteo Renzi sta dando spallate alla politica del sindacato basata sulla lotta ai “padroni” con manifestazioni di piazza e continui richiami alla “concertazione” che si traduce nell’imporre le proprie vedute (o per lo meno nel tentativo di imporle). Nel clima attuale è possibile, e comunque sperabile, che Renzi ci riesca.

La misura del cambiamento di pensiero l’avremo quando il sindacato e l’estrema sinistra avranno spontaneamente messo da parte il termine di “padrone”, sostituendolo con quello di “imprenditore”, “impresa”, “azienda”. Andate a parlare di “padroni” con i sindacalisti tedeschi e vi rideranno in faccia: è il loro modello che la nostra sinistra dovrebbe studiare, non quello del Soviet stile 1918.

A proposito di impresa pubblica e privata, il pensiero di sinistra non ha ancora raccolto l’insegnamento dei risultati della “spending review”, che hanno fatto emergere gli enormi sprechi delle imprese pubbliche, e delle municipalizzate in particolare: decine di migliaia fra presidenti e membri di CdA di aziende quasi tutte in perdita e molto spesso male amministrate, ma sempre profumatamente pagati. Se fatichiamo a risalire la china, una buona dose di colpa la dobbiamo attribuire anche al pensiero squisitamente di sinistra che “pubblico è (sempre) bello”.

Ciao, buona giornata

Umberto



roberto ha detto...

Caro Umberto,

è sempre un piacere leggerti per le tue considerazioni ponderate e acute, che condivido pienamente.
I sindacati sono probabilmente il fortino conservatore più potente del nostro Paese e dovrebbero davvero prendere esempio da quelli tedeschi, i quali ahnno saputo condividere scelte difficili, che hanno trasformato la Germania da "malata d'Europa" al fulcro dell'Unione, dotata di un' eccezionale competitività malgrado i salari più alti del continente.
La battaglia di Renzi contro il potere di veto dei sindacati è sacrosanta e c'è da augurarsi che le elezioni europee confermino le recenti intenzioni di voto a lui favorevoli, anche se i recenti scandali e conseguenti arresti confermano una diffusa e incessante pratica tangentizia bipartisan che porta molta acqua al mulino di Grillo.
Bisogna vedere se Renzi riuscirà a dare un seguito concreto e forte all'intenzione, in merito alla vicenda dell'Expo. di " non stare a guardare". Su questa questione si gioca gran parte della partita elettorale.
Ciao.

Roberto

Giorgio Calderaro ha detto...

Caro Roberto,

Condivido in pieno la riflessione chi mi hai girato.
Aggiungendo che :
- solo gli Stati ricchi di materia prima da esportare possono permettersi politiche pubbliche espansive
- noi possamo esportare solo turismo, ingegno e qualità, cose che passano attraverso sinergia tra sistema, imprenditori, lavoratori
- lo Stato deve trasformarsi da consumatore di energie (ed erogatore di sussidi) a facilitatore
- il lavoro non è più un diritto (che deve essere imposto per legge) ma una conquista dell'ingegno e dell'abilità (che deve essere facilitata da norme ed istituzioni)
Un caro saluto a tutti
Giorgio

roberto ha detto...


Caro Giorgio,

mi piace la tua considerazione sul ruolo dello Stato come "facilitatore", che mette in condizione di creare opportune sinergie fra i soggetti economici e di sviluppare l'ingegno e l'abilità dei cittadini, che fanno la vera differenza nella competizione internazionale.
Grazie.

Roberto

Fausto ha detto...

Condivido pienamente le riflessioni d Lorenzo Borla e credo che il sindacato in Italia, indipendentemente dal colore che lo identifica, debba uniformarsi alle leggi di un mercato che oramai non fa più' sconti a nessuno. Che cosa intendo dire: sappiamo oramai bene che la produttività' genera profitti, disoccupazione e benessere. Un imprenditore che riesce ad introdurre una innovazione tecnologicamente efficiente che gli permetta di risparmiare, ad esempio, sul costo del lavoro, riesce a vendere il proprio prodotto ad un prezzo più' basso rispetto ai concorrenti, pur mantenendo il medesimo profitto unitario. Riassumendo: la tecnologia consente a chi la introduce di fare profitti, ma crea nello stesso tempo una diminuzione della domanda che va sostenuta. I sindacati non intendono accettare questa regola di mercato in quanto contraria alle ideologie che hanno perseguito sino ad oggi , incuranti di un sistema lungamente superato dalla globalizzazione che ormai ci governa. Io, personalmente, mi auguro che gli atteggiamenti di Renzi nei confronti del sindacato non si affievoliscano in base a ricatti che potrebbero prevalere. Ora, anche se mi rendo conto di potere essere criticato, passatemi la mia convinzione che il sindacato, cos'è come e', serve a molto poco, anzi a niente ed infatti la teoria dell'imprenditore "padrone" e' inadatta al momento, visto che vi sono imprenditori che oramai dividono il bene ed il male della propria attività' con i propri dipendenti e, che, non curanti del fisco, danno priorità' al mantenimento dei propri lavoratori; i tempi sono cambiati ed anche i lavoratori sono diventati parte integrante della sopravvivenza dell'azienda in cui operano.
I sindacati devono pagare lo strapotere che ha loro consentito di apparire ciò' che in realtà' non sono e non sono mai stati.
Fausto

roberto ha detto...


Le tue osservazioni sottolineano opportunamente che imprenditore e lavoratori sono sulla stessa barca e devono remare insieme. Ciò nulla toglie alla fisiologica dialettica fra le parti in fase di rinnovi contrattuali e al ruolo dei sindacati, ma evidenzia che ci vuole, come tu dici, un sindacalismo molto diverso da quello tradizionale.

Roberto

roberto ha detto...


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lorenzo.borla@fastwebnet.it

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ROBERTO