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venerdì 11 marzo 2016

Vincolo di mandato: sì o no ?



di: Franco Puglia

L'Articolo 67 della Costituzione Italiana recita :
Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato. Un articolo molto laconico, che neppure definisce cosa sia il mandato, ma afferma che il parlamentare non ha vincoli nei suoi confronti.

La norma non è una esclusiva della costituzione italiana, ma è comune alla quasi totalità delle democrazie rappresentative e deriva dal principio del libero mandato (ovvero del divieto di mandato imperativo), formulato da Edmund Burke già prima della Rivoluzione Francese  nel suo Discorso agli elettori di Bristol, tenuto il 3 novembre 1774, dopo la sua vittoria elettorale in quella contea. In quel discorso, Burke propugnò la difesa dei principi della democrazia rappresentativa contro l'idea, da lui considerata distorta, secondo cui gli eletti dovessero agire esclusivamente a difesa degli interessi dei propri elettori: «Il parlamento non è un congresso di ambasciatori di opposti ed ostili interessi, interessi che ciascuno deve tutelare come agente o avvocato; il parlamento è assemblea deliberante di una nazione, con un solo interesse, quello dell'intero, dove non dovrebbero essere di guida interessi e pregiudizi locali, ma il bene generale»

Bastano queste poche parole a farci capire da dove derivi questo principio, ed in quale contesto “idealistico” sia maturato. Poi c'è la realtà dei nostri giorni, quella sotto i nostri occhi, in cui gli eletti spesso se ne infischiano del loro mandato, occupandosi d'altro (specialmente tra i parlamentari europei) oppure anticipano la fine di un mandato per assumerne un altro, passando con disinvoltura, e magari per soldi da una aggregazione politica ad un'altra  e tutto questo in un contesto, almeno in Italia, ma non solo, dominato dai partiti politici che in realtà tendono a condizionare pesantemente l'operato “senza vincoli” dei loro parlamentari, che sono chiamati ad operare in nome di precisi interessi e non per il “bene generale”.

In altre parole, questa assenza di vincolo di mandato appare il frutto di una concezione idealistica del parlamentare, immaginato come missionario del bene comune, privo di interessi personali e scelto a prescindere da questi, da una popolazione attenta solo al bene comune e disinteressata a livello personale. E' un  mondo che non esiste, non è mai esistito e mai esisterà.

La politica nasce e si esprime come luogo della mediazione di interessi convergenti e divergenti, in sostituzione del conflitto diversamente espresso tra masse di cittadini.
La pretesa che il parlamentare sia espressione di un interesse comune generalizzato è assurda.
Il parlamentare esprime, e così deve essere, precisi e dichiarati interessi, espressi in una visione di organizzazione sociale che deve privilegiare i suoi rappresentati senza scontentare troppo tutti gli altri. La mediazione tra interessi contrapposti dei diversi gruppi parlamentari esprime poi la scelta migliore possibile in quel momento.

La scelta del parlamentare da parte dei cittadini viene fatta affinchè questi rappresenti gli specifici interessi di quei cittadini elettrori, che conferiscono al parlamentare un mandato, cioè una autorizzazione ad agire per loro conto, per un fine predeterminato, sulla base del quale il candidato si è presentato ed è stato scelto.
Se così non fosse, il mandato non sarebbe un “mandato” , venendo a mancarne i presupposti , che sono quelli dell'azione in via sostitutiva per il raggiungimento di uno scopo.

Quindi, se il mandato esiste, chi lo riceve non può essere “non” vincolato a rispettarlo, oppure il mandato non esiste, ed allora non sussiste il vincolo. Quindi il dettato costituzonale è contraddittorio in termini, assumendo l'esistenza di un mandato che tuttavia non è tale.

Che poi questa norma derivi da ragioni storiche, come si è visto, non attenua la contraddizione della norma.

Detto questo, chiediamoci se è utile questa assenza di vincoli, se è vera ed espressa, e come lo è, e se invece non sia funzionale agli interessi collettivi globali di un paese una rappresentanza vincolata, come il Movimento 5 Stelle suggerisce, e come accadeva negli stati socialisti dove era invece in vigore il mandato imperativo, che assoggetta a vincolo il mandato rappresentativo dei membri delle assemblee ai diversi livelli territoriali, fino al parlamento nazionale, rendendone possibile la revoca da parte del partito comunista di appartenenza, vero dominus dell'iniziativa politica in tali sistemi.

Il riferimento ai paesi del “socialismo reale” mette in evidenza come in questi casi il mandato imperativo altro non fosse che una estensione del potere centrale esercitato non da un organo elettivo (il Parlamento) ma da un organo sostanzialmente monocratico, il Partito Comunista, esautorando di fatto il ruolo dei rappresentatnti eletti in queste pseudo democrazie.

Questa circostanza mette in bella evidenza il ruolo distorsivo del partito nei confronti del mandatario della rappresentanza popolare, ruolo distorsivo presente anche nelle democrazie occidentali, dove più dove meno, e secondo il partito di appartenenza.
Questa distorsione tuttavia è giustificata anche dal fatto che l'elettore sceglie più il partito in sé che non il candidato parlamentare, e quindi l'attesa è che il parlamentare si esprima come estensione del partito in Parlamento, anche se formalmente non ha vincoli di mandato.

Il risultato pratico è che i parlamentari sono fortemente condizionati ad agire in sintonia col partito di appartenenza, salvo scostarsene con rotture clamorose, in genere condannate dall'opinione pubblica, che le vede come “tradimenti”.
In effetti molti parlamentari si trovano dove sono grazie al partito, perchè in sua assenza sarebbero dei signor nessuno. Il dettato costituzionale però consente loro di ribellarsi ; se non ci fosse non potrebbero farlo perchè il loro mandato sarebbe imperativo.

Quindi, visto che Partiti e Parlamento non esistono fine a se stessi, ma come espressione di una necessità dei cittadini, in che modo i cittadini possono meglio esprimersi per delega, cioè attraverso una democrazia rappresentativa ?
Se guardiamo ai cittadini, questi esprimono dei bisogni che non possono soddisfare direttamente, per cui hanno bisogno di una organizzazione collettiva che se ne occupi. Non potendo partecipare tutti assieme alle organizzaazioni pubbliche ed alle scelte, danno mandato ad alcuni tra loro affinchè operino nel loro interesse.
Sin qui il rapporto tra cittadini elettori e mandatari eletti è vincolante, intrinsecamente.
Che diritto ha il mandatario di violare il mandato ? Sarebbe come se un avvocato pagato per difendermi in una causa fosse libero di allearsi con la parte avversa.
Ma poi c'è il partito : questo rappresenta un corpo intermedio tra cittadini elettori e parlamentari eletti. La sua funzione è essenziale : consente di aggregare le forze sociali ed esprimere le candidature. In assenza di un partito d'appoggio nessun candidato avrebbe mai la forza per proporsi in solitaria all'elettorato. Il partito però condiziona il candidato, al momento della sua elezione, ma anche in seguito. Se il partito si sciogliesse dopo le elezioni, il candidato eletto sarebbe libero da condizionamenti e dovrebbe esercitare il suo mandato, vincolante. Invece il partito non si scioglie, ed il candidato eletto può, almeno in teoria, agire liberamente, grazie al dettato costituzionale che non lo vincola al suo mandato.
E qui sta l'errore : l'assenza di vincolo non dovrebbe essere nei confronti del suo mandato, ma del suo partito d'origine.
Infatti il nodo da spezzare è questo : la dipendenza dell'eletto dal suo partito.

Il dettato costituzionale dovrebbe recitare :
Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di partito.

Una sola parola cambierebbe tutto. Il parlamentare sarebbe vincolato verso i suoi elettori, ma svincolato dal suo partito d'elezione.
Il vincolo verso gli elettori lo obbligherebbe a non tradire la linea politica con la quale si è proposto ed è stato eletto, lo obbligherebbe a condurre a compimento il mandato affidatoli senza interromperlo e lo obbligherebbe ad agire secondo coscienza, in nome e per conto di chi lo ha eletto. Se nel frattempo la linea del suo partito d'origine dovesse mutare, non dovrebbe mutare quella del parlamentare, anche se questo potrebbe significare che, alla scadenza del suo mandato, potrebbe non venire rieletto nel medesimo partito.

Ottenere questo implica cambiare radicalmente la FORMA dei partiti per come sono oggi.
Implica infatti distinguere tra il partito visto come terreno di coltura (con la “o”) di una visione politica, luogo di incontro e dibattito tra quanti vi si riconoscono, e candidati ad incarichi istituzionali, che si propongono all'interno di questo ambiente politico con la loro personale visione e le loro proposte, all'interno della visione generale che accomuna quanti si riconoscono nel partito.
Implica anche distinguere in maniera mutuamente esclusiva i ruoli interni del partito, finalizzati al suo sviluppo culturale ed organizzativo, dalle candidature ad incarichi istituzionali.
Implica spezzare definitivamente il legame di potere tra partito ed istituzioni attraverso i candidati eletti, fonte prima della corruzione che devasta la politica attraverso le collusioni diffuse degli interessi più diversi e meno trasparenti.

In conclusione il tema della FORMA partito e del rispetto del mandato in assenza di vincoli sono temi inscindibili tra loro, facendo parte di un unicum strutturale.





22 commenti:

Ugo Genesio ha detto...

Caro Franco,

Penso di poter condividere in pieno le tue conclusioni, cui arrivo però per una strada un po' diversa. Io non credo che la prospettiva di un impegno del parlamentare per il perseguimento del bene comune e non dell'interesse di singoli elettori o gruppi di elettori, da cui discende l'esclusione costituzionale del vincolo di mandato, sia una prospettiva puramente idealistica, senza possibilità di riscontro nella realtà. Al contrario, indipendentemente da qualsiasi considerazione valoriale o moralistica, questa mi sembra essere una prospettiva praticamente inevitabile, in effetti l'unica possibile nel quadro di una moderna democrazia rappresentativa. E ciò per tutta una serie di ragioni.
Anzitutto, quale mandato dell'elettore potrebbe concretamente configurarsi in un semplice segno di croce apposto su una scheda che contiene solo un elenco di simboli o di nomi? In secondo luogo, l'elezione del parlamentare è il risultato di molte migliaia o centinaia di migliaia di voti espressi da elettori, ognuno motivato da interessi distinti e spesso divergenti da quelli di altri cittadini che pure hanno votato come lui: ma come potrebbe il parlamentare farsi carico di tutti questi diversi interessi? Si dice, l'impegno è nel programma presentato agli elettori: ma quanti elettori approfondiscono o anche solo prendono visione dei vari programmi dei partiti e come questi programmi sono stati effettivamente resi pubblici dai partiti? E così torniamo ai partiti perchè sono i partiti che stendono i programmi.
Diceva Giuliano Ferrara con cinica sincerità che i programmi elettorali sono elaborati per non essere rispettati. E' ovvio che se i programmi sono destinati ad attrarre gli elettori essi debbano contenere il più possibile di promesse allettanti e di impegni ottimistici al di là delle più rosee previsioni: altrimenti, se tu proponi sacrifici, chi ti vota? Ma c'è anche una ragione, se vogliamo, tecnica: situazioni nuove e problemi imprevisti si presentano nel corso della legislatura, e allora, come ipotizzare soluzioni nella fase elettorale? Cosa sapevamo noi due anni fa dello stato islamico, o della vicenda di mafia capitale, o del crollo del prezzo del petrolio, o dell'invasione dei migranti? Come poteva tutto ciò essere considerato nei programmi elettorali dei partiti?

( il testp prosegue in un successivo commento)

Ugo Genesio ha detto...

Unica conclusione ragionevole: il mandato elettorale è necessariamente un mandato aperto, un'espressione di fiducia manifestata agli eletti, alla loro competenza, alla loro onestà intellettuale, alla loro capacità di interpretare e alla loro volontà di perseguire il bene del paese, che non è da intendersi affatto come disgiunto dagli interessi di particolari gruppi o categorie di cittadini ma invece come il risultato di un'adeguata considerazione e di un equo contemperamento di tali interessi, anche al fine del perseguimento della pace sociale.
Certo, la scelta tra i candidati dovrebbe svolgersi sulla base di specifiche linee di politica generale ovviamente differenziate, la cui definizione non può che spettare ai partiti, ma è fondamentale la personalità degli eletti, anche sotto il profilo della loro capacità di indipendenza dalle direttive del partito: sono le persone che si mettono in gioco e saranno gli elettori a giudicare del loro operato. Di qui l'esigenza di un sistema elettorale che valorizzi le persone dei candidati ben più della loro appartenenza al partito o a "lobbies" particolari.
In conclusione un "vincolo di mandato", non risultando concretamente attuabile nei confronti degli elettori, si potrebbe configurare solo verso il partito di appartenenza, ma in questi termini esso è decisamente da escludere. Se il partito, deliberando a maggioranza, decide di sopprimere il senato o di privare i cittadini del diritto di scegliersi i loro rappresentanti in parlamento senza che ciò sia mai stato previsto e neppure ipotizzato nel programma presentato agli elettori, come si potrebbe ragionevolmente imporre agli eletti sotto il simbolo del partito di votare tali misure in forza di un preteso vincolo di mandato, ciò che è appunto quel che si vorrebbe introdurre spacciandolo come "pura espressione di democrazia"? Siamo all'assurdo.
Il problema, come tu dici, sono i partiti, il cui importante ruolo di concorso alla determinazione della politica nazionale, credo e ripeto, deve arrestarsi in un paese democratico sulla soglia del parlamento e di tutto il sistema istituzionale. Ma quando e come questo concetto di base potrà essere recepito? Aiuterà in questo senso l'emergere sempre più diffuso degli scandali politici?

Cordialmente, Ugo.



roberto ha detto...

Caro Franco,

complimenti anzitutto per il tuo brillante scritto che tocca molti aspetti i rilevanti di un tema spinoso e lo fa con forte attenzione ai dati di realtà.
Convengo che c’è molto idealismo nel “ Discorso agli elettori di Bristol” che ha dato il via al divieto di mandato imperativo, perché il perseguimento del bene comune non può essere affidato solo alla somma delle volontà dei singoli parlamentari , esentati totalmente da alcun controllo e da alcun obbligo di rendiconto. Cosa produca questa mancanza è ormai sotto gli occhi di tutti con i vergognosi e reiterati episodi di trasformismo che rappresentano una vera e propria beffa nei confronti degli elettori
Come tu dici, solo dal confronto dialettico di posizioni differenziate, espressione di diversi sistemi di valori e di interessi, può nascere concretamente il bene generale.
Vorrei aggiungere però che il predetto “idealismo”potrebbe nascondere un obiettivo più prosaico e concreto che è quello di svincolare gli eletti dagli elettori i quali, una volta espresso il loro voto, vengono totalmente estromessi dalla cosa pubblica. E non è un problema solo del settecento ma riguarda anche i giorni nostri. Una conferma in questo senso mi è venuta dalla lettura del report datato 16 giugno 2009 della Commissione di Venezia del Consiglio d’Europa sul "mandato imperativo e pratiche simili" ,che mi ha fatto capire come questa commissione sia il "cane da guardia" posto dall'Europa a difesa del divieto di mandato imperativo.
Tale ruolo viene svolto dalla predetta Commissione in modo pregiudiziale anche a costo di sfiorare il senso del ridicolo, come nel caso dell’Ucraina cui la Commissione ha ripetutamente sconsigliato di varare norme tese a impedire il trasformismo, perché avrebbero l’effetto di “interferire con il mandato libero e indipendente dei deputati che non sarebbero più in grado di seguire le loro convinzioni”. Questa affermazione, del tutto ideologica, prescinde completamente dal fatto che, nell’arco di soli 8 anni, il 60% dei deputati ha cambiato casacca e alcuni di loro lo hanno fatto anche 10 volte.
Circa il da farsi, tu suggerisci di sciogliere il vincolo di partito mantenendo quello con gli elettori , altri propongono di rinforzarlo dichiarando il medesimo intento. Io ritengo che l’elettore debba comunque mantenere il controllo sugli eletti.
Su questo, e su altro, si può aprire il dibattito.

Roberto

Gerardo Mazziotti ha detto...

Fu per sostenere il governo di Agostino Depretis che nel 1881 alcuni parlamentari della Destra passarono alla Sinistra “ non per motivi di idee e di programmi ma in cambio di favori personali” ( lo scrisse Depretis nelle sue “Memorie”). E fu allora che nacque il “trasformismo”, ossia il frequente passaggio dei parlamentari da un gruppo all’altro, largamente praticato nel Parlamento italiano, sia quello monarchico che quello repubblicano. Ancora oggi. Una vergogna che scandalizzò perfino il bolscevico Stalin, che, in uno dei suoi discorsi, disse “C’è un paese capitalista in cui il deputato si sente completamente libero, indipendente dal popolo, dai suoi elettori, può passare da un campo all’altro, può persino impegolarsi in macchinazioni poco pulite, può far capriole: egli è indipendente (…). La Costituzione sovietica non consente tutto ciò perchè gli elettori hanno il diritto di richiamare al suo dovere il deputato che devia dal mandato che gli hanno affidato e di farlo dimettere e di mandarlo a casa”. A parte i fondati dubbi che i deputati sovietici potessero dissentire dalle direttive del PCUS resta il fatto che solo nel nostro Parlamento ( Stalin deve averlo appreso dai compagni del PCI, che, in sede di Costituente, erano contro l’art. 67) si verifica il “passaggio da un campo all’altro”, vergognoso, inverecondo, deplorevole, immorale. Per colpa dei nostri padri costituenti che, anzicchè preoccuparsi di impedirlo, hanno favorito e legittimato il “trasformismo” con l’art.67 della Costituzione secondo cui “Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”. In tutto il mondo solo il Capo dello Stato rappresenta la Nazione. Il parlamentare rappresenta il partito che lo ha scelto e gli elettori che lo hanno votato col mandato vincolante di attuare le promesse fatte. L’art.67 legittima invece comportamenti di segno contrario. Tant’è vero che sono centinaia gli episodi di” trasformismo” che si sono verificati fino ad oggi nel nostro Parlamento. E’ sufficiente ricordare i parlamentari di Clemente Mastella che, nell’ottobre 1998, sono passati dal centrodestra al centrosinistra per dar modo a Massimo D’Alema di formare il suo governo. E nessun PM ha pensato di indagare sull’operazione. E accaduto invece che nel dicembre 2010 alcuni parlamentari del centrosinistra ( Scilipoti, Razzi e altri ) sono accorsi a votare la fiducia al quarto Governo Berlusconi, e si è parlato di compravendita e di mercato delle vacche. E i PM romani sono intervenuti per verificarne l’esistenza. Ma poi hanno desistito. Quelli della Procura di Napoli hanno inquisito e ottenuto il rinvio a giudizio di Berlusconi ( il processo è in corso) accusato di avere “comprato con 3milioni di euro” ( una cifra assurda) il senatore Sergio DeGregorio per far cadere il governo Prodi del 2006. Che è poi caduto nel gennaio 2008 perché gli hanno votato contro Domenico Fisichella, ex AN eletto nelle fila della Margherita, i liberaldemo cratici Lamberto Dini e Giuseppe Scalera, Clemente Mastella e i due senatori dell’Udeur; il solo volto di DeGregorio non sarebbe bastato.

(il testo prosegue in un commento successivo)

Gerardo Mazziotti ha detto...

Ma l’indignazione di Stalin contro questo “passare da un campo all’altro e impegolarsi in operazioni poco pulite” lascia indifferenti i postcomunisti del PD visto che si affannano a ricordare ai parlamentari del M5S che la Costituzione italiana non li obbliga a seguire le direttive di Grillo perché possono svolgere le loro funzioni senza vincolo di mandato. E possono dare la fiducia a un eventuale governo PD-SEL, presieduto da Bersani. Ci sono due modi per eliminare questa vergogna italiana. Uno è quello indicato da uno dei più prestigiosi padri costituenti, Costantino Mortati, mio concittadino e amico “Il parlamentare rappresenta il partito che lo ha candidato e fatto eleggere e quando non intende condividerne le decisioni ha l’obbligo dimettersi. L’altro modo è quello che ho indicato nel mio libro “L’assalto alla diligenza” del luglio 2005 : abolire l’art 67. Tutt’e due eviterebbero compravendite di parlamentari, corruzioni e “macchinazioni poco pulite.”. E non avremmo mai un Parlamento diverso da quello uscito dalle elezioni.

Gerardo Mazziotti

Giuseppe Costarella ha detto...

Nel ringraziare l'amico Mazziotti per il prezioso contributo offerto, a mio sommesso avviso è quanto mai urgente ed opportuno riflettere sul problema accuratamente esaminato, con acutezza e confacenti richiami storici e giuridici, nel suo articolo. Oggi è necessario trovare una soluzione alla questione, per evitare l'ulteriore divaricazione tra paese reale e politica, con conseguente aumento dell'astensionismo (ancora oggi portato alla pubblica attenzione e qualificato come un vulnus alla democrazia dal Presidente Mattarella).

Giuseppe

Matteo Zambelli ha detto...

Sommessamente vorrei ricordare, sul tema "trasformismo", che il TUTTO nasce da "azione e reazione" pre-bellica.
Il Trasformismo era (in modo conclamato) il male dell'epoca Giolittiana.
A causa dei continui e frequenti rimpasti, con convergenza al "centro" dell'emiciclo parlamentare, la Destra Storica e la Sinistra Storica causarono lo STALLO politico-parlamentare che diede di fatto una scusa per la Marcia su Roma; l'avvento del Fascismo ed alla Dittatura. Col Duce al Governo, la "soppressione" del Parlamento e la creazione del Gran Consiglio, NESSUNA libertà veniva lasciata ai rappresentanti politici (dell'unica lista votabile).
l'Art. 67 ha di fatto, nella mente dei nostri padri costituenti, voluto annullare ogni singolo aspetto "fascista" del regime.
L'Antifascismo, come idem sentire, collante politico-sociale, ha permesso a forze TOTALMENTE diametrali come DC e PCI di trovare una sintesi per poter varare una Costituzione comune.
Riformare l'art. 67 NON è una "bestemmia" od un peccato di lesa maestà.
I tempi sono molto cambiati, da allora; e nessuno ha realmente timore che il PNF possa tornare.
Resta però, a mio avviso, il nodo cruciale.
Riformare l'art. 64 PER OTTENERE COSA?
Evitare che i deputati possano "vendersi" al miglior offerente? (casi Razzi-Scilipoti-Di Gregorio ecc.?)
Oppure evitare che i deputati possano DISSENTIRE dal Segretario di partito/capogruppo alla Camera?

Prioritariamente e cronologicamente dovremmo preoccuparci della Forma-Partito (o ente intermedio o come volete chiamarlo) per definire ruoli, diritti, doveri, democraticità ecc. dei cittadini attivi in politica, sia come responsabili di partito che come rappresentanti del popolo eletti al Parlamento.
Di conseguenza la riflessione sull'art. 67.

Parere personale (opinabile): alle segreterie di partito preme MOLTO di più poter espellere i PROPRI deputati dissenzienti , facendoli dimettere e sostituendoli con peones accomodanti, piuttosto che garantire coerenza con un ipotetico mandato elettorale.

Ma sicuramente mi sbaglio.

Matteo

Carlo Giulio Lorenzetti ha detto...

La reazione, comprensibilmente scandalizzata, ai troppi cambiamenti di casacca di molti nostri parlamentari rischia di lasciare nell’ombra le ragioni profonde e – a mio avviso –tuttora valide che sono alla base del divieto di mandato imperativo. Principio accolto nella maggior parte delle costituzioni moderne e che risponde alla finalità di garantire l’indipendenza del parlamentare da ogni influenza, da qualunque parte provenga, suscettibile di compromettere l’esercizio della funzione di composizione e di sintesi degli interessi particolari nel modo che meglio si adegui all’interesse generale.
Diversamente che per il passato, quando i parlamenti sorsero con la funzione di tutelare gli interessi dei ceti sociali più attivi (nobili, ecclesiastici,proprietari terrieri ecc.) e coloro che vi sedevano assumevano la veste di veri e propri rappresentanti delle volontà e degli interessi tutelati (mandato), con l’avvento della rivoluzione francese, che mutò profondamente l’assetto della società, i parlamentari non dovevano più rappresentare gli interessi di questo o quel gruppo sociale, bensì la nazione in generale.
Anche così si spiega il nostro art.67 che, non a caso, recita : “ ogni membro del parlamento rappresenta la nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”.
Naturalmente, di questo come di ogni altro istituto giuridico si può abusare e di fatto si è abusato, spesso per coprire operazioni di trasformismo o ispirate a meri calcoli di convenienza personale o di gruppo. Ma questo invalso malcostume non giustificherebbe l’abbandono di un principio che è tra quelli essenziali delle democrazie parlamentari.
Come molti hanno già osservato, la presenza di partiti organizzati e l’appartenenza ai gruppi parlamentari che ne sono l’espressione, con conseguenti vincoli di disciplina e di lealtà
rende più complesso la materia, introducendo nei rapporti tra eletti ed elettori un terzo soggetto: il partito col suo programma e la sua identità. Il cui abbandono o tradimento non può avere altra sanzione che quella politica del mancato rinnovo della fiducia, ove gli elettori ritengano non convincenti e sostenibili le ragioni o le circostanze che hanno portato a simili cambiamenti.

C.G. Lorenzetti

Dario Lodi ha detto...

Tutto ammirevole, bello. Per me tuttavia bisogna cercare soluzioni radicali. Una pianta vive grazie alle radici, poi le foglie aiutano. Noi invece, in generale, partiamo dalle foglie. E’ come fare una casa dal tetto.



Dario

roberto ha detto...

Devi tener conto che il dibattito riportato è maturato in un'associazione che si chiama "Le Forme della politica" e che, quindi studia le "regole del gioco" di questa realtà. Si parla, specificamente, di riforme riguardanti l'assetto funsionale di partiti e istituzioni ma si analizzano anche le dimensioni culturali sottostanti.

Così facendo si potano le foglie secche, si curano i nuovi germogli e si concimano adeguatamente anchele radici.

Roberto

Franco Trotta ha detto...

Sono dell’idea che opporsi al trasformismo sia buona cosa e che cercare di impedire la lotta a questo triste fenomeno sia irresponsabile.
Tuttavia non butterei completamente a mare il principio che il parlamentare rappresenta la nazione, perché non può essere solo il difensore del “particulare” suo e dei suoi elettori
Si tratta, quindi, di trovare un equilibrio fra rispetto del programma ideale e pratico cui ha aderito e la capacità di concorrere ad una sintesi che salvaguardi il bene comune.
Non so dire come, però.
Franco

roberto ha detto...


Convengo che sia irresponsabile impedire la lotta al trasformismo.
Di fronte a problemi macroscopici che richiedono un intervento non ci si può nascondere dietro ad approcci ideologici che fanno il gioco dei furbi.
Credo che il nodo stia nel creare le condizioni affinchè gli elettori possano mantenere un controllo sugli eletti. Provo a formulare alcune ipotesi, tutte da discutere e da approfondire
La prima sarebbe istituire il "recall", cioè la possibilità che i cittadini revochino il mandato se ritengono che l'eletto non sia fedele ai patti elettorali; questo istituto esiste in parecchi stati degli USA, in uno stato del Canada e in Svizzera. Andrebbe studiato bene.
Un'altra, la creazione di "Commissioni di revisione" composte da cittadini sorteggiati mediante un campionamento stratificato della popolazione, e quindi rappresentativi della Nazione, che potrebbero esaminare, con criteri da stabilire, le situazioni apparentemente anomale.
Una terza sarebbe introdurre per legge ordinaria norme che garantiscano un'effettiva democrazia interna, che oggi manca in tutti i partiti, affinche gli organi collegiali possano valutare in modo ponderato i comportamenti degli eletti.
Tutte le ipotesi precedenti sono compatibili con il principio stabilito dall'art. 67 della Costituzione che il parlamentare rapresenta la Nazione.

Roberto

Angelo Sanelli ha detto...

Quindi tu non proponi di cambiare la Costituzione ma di agire per legge ordinaria con lo scopo di stabilire la possibilità di un controllo "in itinere" dei comportamenti parlamentari. E' così?
Un cordiale saluto.
Angelo

roberto ha detto...


E' proprio così, per vari motivi:
- è in corso un faticoso e ocntroverso processo di cambiamento costituzionale in un'atmosfera surriscaldata e, quindi, proporre altre modifiche in un prossimo futuro è irrealistico.
- non è necessario toccare la legge suprema perchè è sufficiente interpretarla in termini ragionevoli e non strumentali
- non c'è alcun bisogno di dare un mandato imperativo agli eletti ma basta che venga esercitato un controllo appropriato e meditato su ciò che i parlamentari fanno in funzione di ciò che hanno promesso e tenendo conto delle mutate circostanze, se ce ne sono.. Nulla a che vedere con i giudizi sommari.
E' una materia delicata, che richiede serietà.
Un saluto anche a te. Roberto

roberto ha detto...


Apporto un'integrazione al commento precedente. Il fine è quello del "controllo in itinere" ma i mezzi per raggiungerlo possono essere diversi: si può procedere infatti anche senza nuove leggi e cioè con decisioni politiche. I provvedimenti presi dai 5 Stelle in vista delle prossime elezioni amministrative sono un esempio; un altro è il "patto antitrasformismo" siglato inizialmente da 12 partiti spagnoli, che sono diventati sedici nella legislatura successiva.

Aldo ha detto...

In Italia abbiamo un partito che si chiama Nuovo Centrodestra che fa parte di una coalizione di centrosinistra, un politico che era braccio destro di Berlusconi ed ora lo è di Renzi, un governo che si sostiene con maggioranze variabili.Il vambiamento di giacchetta che altrove è un'eccezione, qui è diventato la regola.
Ho poche speranze che la situazione possa cambiare.
Aldo

roberto ha detto...


Capisco il tuo disincanto ma paradossalmente è proprio nelle situazioni più compromesse che il cambiamento è possibile. Faccio un esempio ipotetico ma non irrealistico: se i 5 Stelle riuscissero a conquistare una grande città, i media si scatenerebbero alla ricerca delle diversità di questa forza e forse qualcuno scoprirebbe anche il "recall" che finora gli organi d'informazione hanno totalmmente ignorato.
Potrebbe svilupparsi allora um fenomeno imitativo simile a quello che è avvenuto per le primarie: prima erano solo del PD, ora le vuole fare persino Berlusconi, anche se taroccate.
Roberto

roberto ha detto...


Ieri sera, nella trasmissione radiofonica "Zapping" il Capogruppo alla Camera per il Gruppo Misto, Pino Pisicchio ha illustrato la proposta di legge sul "recall" preparata dal suo Gruppo e di cui si discuterà prossimamente nella Conferenza dei Capigruppo. Tale strumento, secondo Pisicchio, è adatto a dare ai cittadini il controllo dei ruoli monocratici com quello di Sindaco, al quale è rivolta la proposta di legge, ma non a quelli collettivi, come il Parlamento.L'iniziativa adottata è molto interessante perchè segnala che la politica non è del tutto insensibile all'esigenza impellente di effettiva partecipazione dei cittadini, di cui questo blog e l'associazione "Le Forme della Politica" www.leformedellapolitica.it) si fanno portavoce.
Conto di prendere contatto con l'On Pissicchio per seguire gli sviluppi del progetto.

I

roberto ha detto...


Ecco la mail inviata all'On. Pisicchio:

Onorevole Pisicchio,

ho ascoltato ieri alla radio l'interessante dibattito sul tema in oggetto ed ho apprezzato quanto da Lei detto, che apre una nuova prospettiva per il controllo da parte dei cittadini su come viene svolto uno degli incarichi istituzionali più rilevanti, quello di Sindaco.
Le segnalo, al riguardo, il commento che ho scritto nel mio blog "La politica dei cittadini (www.civicum.blogspot.com ) )

"Ieri sera, nella trasmissione radiofonica "Zapping" il Capogruppo alla Camera per il Gruppo Misto, Pino Pisicchio ha illustrato la proposta di legge sul "recall" preparata dal suo Gruppo e di cui si discuterà prossimamente nella Conferenza dei Capigruppo. Tale strumento, secondo Pisicchio, è adatto a dare ai cittadini il controllo dei ruoli monocratici com quello di Sindaco, al quale è rivolta la proposta di legge, ma non a quelli collettivi, come il Parlamento.L'iniziativa adottata è molto interessante perchè segnala che la politica non è del tutto insensibile all'esigenza impellente di effettiva partecipazione dei cittadini, di cui questo blog e l'associazione "Le Forme della Politica"( www.leformedellapolitica.it ) si fanno portavoce.
Conto di prendere contatto con l'On Pisicchio per seguire gli sviluppi del progetto".

Le sarei grato se volesse tenermi informato sugli sviluppi dell'iniziativa.
Nell'augurarLe buon lavoro, La saluto cordialmente.

Roberto Barabino

Ugo Genesio ha detto...

Aggiungo alcune riflessioni a quelle fatte nel precedente commento:

Franco respinge una visione, da lui definita idealistica, del politico come soggetto dedito al perseguimento del bene comune: visione riferibile a un mondo che non esiste, non è mai esistito e mai esisterà. Di fatto il parlamentare rappresenta precisi e dichiarati interessi dei cittadini che lo hanno eletto e in ciò precisamente consiste il mandato che egli è tenuto a rispettare se il mandato deve avere un senso. Il problema si pone per il ruolo distorsivo del partito da cui dipende la candidatura attraverso il condizionamento che il parlamentare viene a subire per effetto di tale dipendenza, pur giustificata dal fatto che il cittadino sceglie più il partito che il candidato, sì che questo, una volta eletto, tende inevitabilmente ad agire in sintonia con il partito di appartenenza. La soluzione starebbe in una formula costituzionale che sancisse la rottura di un tale rapporto di dipendenza: non più “senza vincolo di mandato” ma invece “senza vincolo di partito”.
Non condivido questa posizione. Resto convinto che l'impegno politico debba essere in linea di principio un impegno di servizio, motivato essenzialmente dal lodevole intento di promuovere il bene comune attraverso il perseguimento dell'interesse generale, ovviamente secondo la visione personale del singolo soggetto. L'obiettiva constatazione di una realtà difforme, sia pure in misura diversa nei vari paesi, per cui il politico tende spesso a far prevalere interessi di parte se non addirittura il suo proprio interesse, denuncia una degenerazione patologica che va contrastata, non accettata come ineluttabile dato naturalistico. La contraddizione fra mandato ed esclusione del vincolo viene meno se il rapporto di rappresentanza si configura in senso ampio, come di mandato conferito all'eletto dal corpo elettorale considerato nel suo complesso e non già dal singolo elettore o gruppo di elettori, in una prospettiva quasi privatistica. Per una più approfondita disamina non posso che richiamare il secondo dei miei succitati messaggi (in ugogenesio.wordpress.com alla categoria “corrispondenza”).
Sul piano pratico vi sarebbe una misura di sicuro effetto e di facile attuazione per disincentivare quelli che si candidano all'impegno politico senza essere animati da un sincero spirito di servizio: una riduzione drastica degli emolumenti e dei ricchi “fringe benefits” per l'oggi e per il domani legati alle prospettive di ruoli e posizioni, istituzionali e non, che l'attività politica è in grado di offrire.
Ovviamente da condividere è il rilievo che il mandato non va riferito al partito ma ai cittadini elettori e alla luce di questo rilievo va riconsiderata la questione del numero impressionante di “cambi di casacca” registrati nella legislatura in corso. Partiamo dalla constatazione dell'avvenuto disfacimento dei partiti tradizionali nel nostro paese e dalla mancanza di una definita identità politica dei nuovi. Oggi, a fronte di un PD stremato da profondi contrasti interni abbiamo un PdL esploso in sei o sette pezzi e una Lega Nord che, abbandonata la sua originaria specificità connaturata al territorio, si è resa generico collettore di voti di scontento e di preconcetta ostilità per il nuovo e il diverso. In questa situazione cosa ci si sarebbe potuto ragionevolmente attendere dai 200 parlamentari eletti con il PdL e dalla sessantina di eletti sotto il nome di Monti dopo il dissolvimento dei rispettivi gruppi se non di passare ad altro gruppo o al gruppo misto o di dar vita ad un gruppo nuovo? Dimissioni di massa?

( i testo prosegue in un successivo commento)

Ugo Genesio ha detto...

Altra situazione: quando siano i vertici del partito ad aver cambiato linea rispetto ai programmi e agli impegni assunti con gli elettori nella campagna elettorale, come potrebbero gli eletti ritenersi vincolati a sostenere la nuova linea del partito che li ha candidati? Sono gli stessi partiti, come possiamo verificare sotto i nostri occhi, o i loro vertici, o loro parti rilevanti, a “cambiare casacca” secondo convenienza. Che dire, per fermarci ad esempi minori, dell'amministrazione di Bisceglie che da destra transmigra in blocco verso il PD di Emiliano con 400 iscritti e le tessere pagate con un addebito globale su un'unica carta di credito?
Tanto più evidente, a fronte di queste situazioni clamorose, risulta quindi del tutto fuori tema l'attacco al principio ispiratore dell'art.67 della Costituzione, pur con gli inconvenienti e le anomalie che esso può far emergere in casi particolari. Riporto per incidens il testo del corrispondente articolo 38 della Costituzione tedesca (Legge Fondamentale del 1949): «I deputati del Bundestag sono eletti a suffragio universale, diretto, libero, uguale e segreto. Essi sono i rappresentanti di tutto il popolo, non sono vincolati da mandati né da direttive e sono soggetti soltanto alla loro coscienza».
Quanto poi ai problemi conseguenti al ruolo “distorsivo” del partito nella sua forma attuale, da rivedersi radicalmente nella prospettiva dell'ente intermedio indicata da Pino Polistena e sostanzialmente condivisa nell'articolo, una soluzione non decisiva ma tuttavia di un certo peso si individua in un sistema di rappresentanza democratica che valorizzi la personalità degli eletti rispetto alla designazione del partito: ciò che si verifica attraverso il sistema del collegio uninominale per l'elezione dei membri del parlamento, che è quello più largamente applicato nelle democrazie occidentali (USA, Regno Unito, Francia, in parte Germania). Sulla rilevanza fondamentale di tale sistema ai fini della più effettiva attuazione della volontà popolare, della qualità dei chiamati alle cariche pubbliche, del necessario rapporto fra elettori ed eletti e infine del ridotto ruolo dei partiti ho avuto modo di esprimere ampiamente la mia opinione nelle note che qui mi limito a richiamare (ugogenesio.wordpress.com: “Partiti e legge elettorale” (I valori della democrazia), “Tornare al Mattarellum” (Verso le elezioni), “Italicum per salvare porcellum” (Le Riforme).

roberto ha detto...


Caro Ugo,

ti ringrazio del commento che, mi trova pienamente d'accordo.
Pur essendo stato inizialmente favorevole ad una modifixa dell'art.67, mi sono reso conto dal dibattito avvenuto e dalle riflessioni che ho fatto sulle forme della politica che le cose stanno diversamente proprio per le ragioni che tu dici: Se il "dover essere" , espresso dall'art. 67, è in contrasto con l' "essere" non è il primo a dover essere modificato, ma il secondo.
In questo senso mi sono espresso anche nel documento preparatorio alla discusssione online sulle forme della politica che vi farò avere in giornata.